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L’avvocato Taormina ha consegnato ufficialmente la busta contenente il nome del colpevole. Come in ogni quiz che si rispetti, è stata affidata alla guardia di finanza. Per aumentare la suspence, il nome non verrà divulgato subito, bisognerà attendere ancora qualche giorno. Certo, le ricevitorie lottomatica e sisal hanno chiuso le puntate, ma non vi sarà difficile trovare qualche allibratore abusivo per piazzare una scommessina dell’ultim’ora.


E’ stato di sicuro il reality show più intrigante dell’ultima stagione televisiva. Ho trovato geniale la combinazione di cronaca nera e quiz. La scelta di un neonato come vittima, poi, un vero tocco di classe. Per non parlare dell’annuncio in diretta della gravidanza della sospettata principale, wow, non me l’aspettavo! Visto il grande successo, la RAI ha ottenuto dalla magistratura i diritti per gli omicidi dei prossimi due anni, battendo sul tempo la concorrenza di Mediaset. Il programma, con tutta probabilità, si intitolerà “Ammazza, che Show”, avrà una striscia quotidiana nel preserale di RaiDue e il prime time del giovedì di RaiUno, in diretta concorrenza con la nuova edizione del Grande Fratello. La conduzione sarà affidata al collaudato Giletti, con Flavia Vento come inviata sul campo. Verra quindi riproposta la coppia che rese indimenticabile “Il Lotto alle Otto”.

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Qualche anno fa, in un pub di Highgate, nella zona nord di Londra, ho conosciuto uno strano vecchietto. Si aggirava sempre intorno ai tavoli da snooker, aspettando qualcuno che giocasse con lui. A guardarlo in faccia sembrava che avesse almeno cent’anni, pareva messo lì da quelli che avevano costruito il locale, come la carta da parati a quadrettoni ormai sbiaditi o la lavagnetta segnapunti che nessuno usava più.

 
Ogni volta che entravo nel pub, lo vedevo lì, nella sala dei biliardi. Raramente andava al bar a prendersi una pinta di birra, qualche volta guardava i tornei di snooker in televisione, nient’altro. Il suo soprannome era Harry Potter, ma il nomignolo non doveva piacergli molto perché, quando qualcuno lo chiamava così, lui emetteva un grugnito scocciato prima di rispondere. Era in tutto e per tutto la classica macchietta da bar e in tal modo veniva trattato dai clienti abituali.

 
Il barista mi spiegò che anni fa la gente lo chiamava Harry “the potter” (quello che imbuca le palle), più per sfotterlo che non per una sua vera abilità a giocare a biliardo, ma da quando erano usciti i romanzi della Rowling i clienti più spiritosi avevano iniziato a chiamarlo come il giovane mago, e la cosa era piaciuta anche agli altri. Non si sapeva dove vivesse, del resto nessuno l’aveva mai visto fuori dal pub, e quale fosse il suo cognome. Sapeva solo che ogni pomeriggio se lo trovava sempre lì, nella sala dei biliardi, e che beveva sempre la solita stout alla spina.

 
Giocava a biliardo, si, ma non era bravo. Perdeva con tutti quelli che avessero preso in mano una stecca almeno un paio di volte. Solo coi novellini riusciva a vincere, ma anche con loro doveva presto arrendersi, appena iniziavano a capire il gioco.

I principianti amavano giocare con Harry Potter perché, se c’era una cosa che sapeva fare davvero, era spiegare lo snooker alla gente. Aveva insegnato a tutti i ragazzi della zona, per tanti anni, e i ragazzi erano diventati uomini, alcuni avevano smesso di giocare, altri si facevano ancora qualche partita con Harry, quando lo vedevano seduto davanti al suo biliardo, con lo sguardo assente. Grazie alle sue lezioni, un ragazzo del quartiere era perfino passato professionista, negli anni ’70, ma al termine della sua prima stagione decise di smettere e finì a lavorare in un negozio di alimentari, almeno aveva uno stipendio fisso.

 
Quando non era dai biliardi, lo vedevi seduto davanti al televisore. Allora sapevi che era uno di quei 4 o 5 momenti dell’anno in cui la BBC trasmetteva un torneo. Se fuori faceva molto freddo era il Masters, se c’era aria di primavera erano i Campionati Mondiali al Crucible di Sheffield.

Harry non era un tifoso, guardava le partite per il gioco in sé, ma c’era un campione che proprio non sopportava. Successe nel 1997, il giovane Ronnie O’Sullivan, una faccia più adatta allo spaccio di droga in qualche sobborgo che non alle finali dei grandi tornei, fa una serie perfetta di 147 punti nei primi cinque minuti e venti secondi della prima partita del torneo mondiale. Non che sia una cosa strana per lui, ma quell’ostentazione di sicurezza e bravura a Harry proprio non andò giù. Lui, che ha giocato a snooker tutti i giorni della sua vita, non l’aveva mai fatto un 147. E quello ci riusciva in cinque minuti.

 
Una volta entrò nel pub Jimmy “Whirlwind” White, un idolo per i tifosi londinesi. Tutti quanti si accalcarono presso il bancone a dargli pacche sulle spalle, chiedergli autografi e offrirgli pinte di birra. Harry Potter no, rimase al tavolo a cercare di piazzare una difficile palla rosa in buca laterale. A lui i campioni mica interessavano, a lui importava solo dello snooker. Quel giorno Harry fece una serie da più di cento punti, quella che gli inglesi chiamano “century break”. Era la quinta volta che ci riusciva in vita sua, ma non c’era nessuno a vederlo, erano ancora tutti a festeggiare Jimmy. Ma a lui non importava. Mise le palle rosse nel triangolo e sistemò le colorate, passò il gesso sulla stecca poi piazzò il pallino nella lunetta, preparandosi a spaccare. E sorrise alla stanza vuota.

 
Harry Potter odiava il suo nuovo soprannome. Anche il vecchio non gli piaceva molto, ma era una vita che tutti lo chiamavano così e ci si era abituato. Non si era accorto subito del cambiamento, lui non leggeva mai e, se l’avesse fatto, probabilmente non avrebbe scelto delle storie di magia per bambini. Dopo qualche giorno un gruppo di clienti più vecchi gli spiegò il gioco di parole, e lui non ce la fece a nascondere il malumore. com’è ovvio questa reazione consacrò la nuova presa in giro e lo battezzò ufficialmente “Harry Potter, il mago dello snooker”.


Un mago che non fa magie, che mago è?  E’ una barzelletta o una macchietta da bar. Una sera di due settimane fa il pub era pieno di gente, la partita di calcio aveva attirato tutte le famiglie della zona, i tavoli erano colmi di pinte di birra e patatine, l’aria piena di fumo.  La saletta dei biliardi era quasi vuota, Harry giocava con uno dei suoi vecchi allievi. Dopo qualche tiro interlocutorio, qualche goffo tentativo di difesa, Harry imbuca una palla rossa, il pallino rimane in posizione per piazzare anche la nera, che va dentro. Altra rossa, altra nera, 16 punti. Rossa, nera, rossa nera, rossa, nera, 40. L’Aston Villa sbaglia un rigore, la gente si passa parola: “Harry Potter sta facendo una partita perfetta”.

 
Un curioso si avvicina ai biliardi, “venite, presto”, davanti alla tv rimangono solo alcune donne e quelli troppo ubriachi per capire che cosa sta succedendo. Intorno al biliardo la gente cerca di guardare senza disturbare i giocatori. Un uomo arriva ridendo ad alta voce ma viene allontanato. C’è silenzio, c’è molto caldo. Il vecchio Harry indossa il suo solito panciotto blu, ma neppure una goccia di sudore attraversa la sua fronte. Palla rossa, palla nera, per quindici volte. Il barista lascia il bancone, tanto non c’è più nessuno da servire.

 
Harry si prende il suo tempo tra una palla e l’altra, non ha fretta, gioca col solito ritmo, pensando ogni palla, anche la più facile, come se dovesse fare un tiro di otto sponde. Gialla, dentro. La gente mormora, il pallino è rimasto un po’ corto. Verde in angolo destro, effetto all’indietro, poi marrone nella stessa buca. Centoventinove punti, e il pallino risale dolcemente il tavolo per affrontare gli ultimi tre colori. Blu in laterale destra, effetto a seguire. Rosa in angolo sinistro, effetto a seguire. Squilla un cellulare, un tipo si allontana di corsa, maledicendo la moglie che lo cerca proprio in quel momento. Centoquaranta punti, tocca alla nera. Nessuno osa spostarsi, nessuno respira. Harry Potter alza lo sguardo, pare sorpreso di vedere tutta quella gente. Mentre gessa la stecca i suoi occhi sembrano capire solo in quel momento che cosa sta succedendo, la mano appare meno ferma, ma forse è solo un’impressione. Un tizio lo guarda negli occhi e gli sussurra “forza Harry”. Niente, lui sembra non sentire, ma tutti notano una goccia di sudore rigargli la tempia sinistra. Harry si distende sul tavolo da biliardo e la gente ha l’impressione che quel vecchio mucchio di ossa debba spezzarsi da un momento all’altro, tanto è faticosa e innaturale la sua postura. Il brandeggio è difficoltoso stavolta, sarebbe meglio che usasse il rastrello, ma nessuno osa fiatare. Harry si arrampica sul biliardo montandolo come fosse una bella donna, ma forse nessuna donna avrebbe mai potuto renderlo altrettanto ansioso. Parte il tiro, il pallino colpisce la nera.

 
Quanto lenta può viaggiare una palla da biliardo senza fermarsi? Mentre la nera rotola per la sua strada, Harry accenna un sorriso e sussurra “cento… quarantastette” sbuffando, ma nessuno guarda più lui. Tutti spingono con lo sguardo quella lentissima nera verso una buca troppo piccola. Appena superato l’orlo della buca, ma prima che la retina accolga la palla, la stanza è viva. Tutti gridano, tutti si muovono, tutti, tranne Harry disteso sul tavolo. Harry Potter, usando la stecca al posto della bacchetta, aveva fatto la sua prima e ultima magia.

 
Mentre gli amici del pub portavano a spalla la bara di Harry, fatta foderare apposta di panno verde, quelli che passavano dalle parti della chiesa si chiedevano chi era il morto e perché c’era tanta gente a quel funerale. I notiziari cittadini e le pagine locali dei quotidiani avevano riportato la notizia di quella morte curiosa, ma più di tutto ciò aveva potuto il passaparola tra la gente. Erano venuti tutti: tutti quelli a cui Harry aveva insegnato lo snooker senza mai chiedere nulla in cambio, ed erano davvero tanti. Erano lì perché avevano capito che Harry, quando perdeva a biliardo, insegnava loro a vincere nella vita, e che a questo mondo sono poche le persone disposte a regalarti qualcosa di tanto prezioso.

 
Si scoprì che Harry era stato sposato, ma sua moglie era morta durante i bombardamenti tedeschi nella seconda guerra mondiale. Lui si salvò perché, in quel momento, si trovava in uno scantinato a giocare a snooker.  Non aveva avuto figli, ma forse è più corretto dire che ne aveva avuti tanti e che, come tutti i figli, dopo un po’ se n’erano andati per la loro strada. Ma per il funerale del vecchio Harry ce l’avevano fatta a ritornare.

 
Nessuno sa in che momento Harry sia morto, però a me piace pensare che abbia visto la nera rotolare in buca e finire nella retina. Ma forse non è poi così importante, tanto lui lo sapeva che sarebbe entrata, lo sapeva che aveva finalmente fatto il suo centoquarantasette.

 

 

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