16 Giugno 2023
by hardla
0 comments

Non affannatevi

Stavo notando che qui ormai scrivo una media di un post all’anno, e in quel post di solito racconto cosa mi è successo nell’anno precedente o robe così. E notavo pure che ultimamente non sono mai cose belle o piacevoli da vivere e nemmeno da leggere.

Quindi diventa una cosa imbarazzante iniziare un nuovo post, in un nuovo anno, raccontando nuovamente altre cose molto negative e tristi che mi sono accadute.

E allora mi chiedo, devo proprio farlo? Tanto qui non viene nessuno, e se qualcuno per sbaglio venisse saprebbe già da tempo quello di cui dovrei scrivere nel post. Che senso ha lamentarsi per iscritto e in modo gratuito di cose per cui pago apposta uno specialista che mi stia a sentire?

Per mettere in ordine i pensieri? Per mugugnarmi, come da mio diritto di nascita genovese? Per farmi consolare da nessuno? Per solleticare un mio innato istinto al vittimismo?

Ok la mia vita non è andata nella direzione che speravo. Poteva andare meglio, poteva andare anche peggio. Non starò qui a raccontare la favola delle persone più sfortunate di me, che non hanno nulla e vorrebbero comunque essere nella mia situazione. Tutto vero, sia chiaro, ma in certi frangenti uno non riesce ad essere così tanto onesto intellettualmente da ammettere al mondo, cioè a nessuno (come abbiamo quantificato la mia attuale platea di lettori) che alla fine, con tutto quello che mi è successo negli ultimi anni, sono sempre e comunque un privilegiato.

Sì perché c’è questa cosa dei privilegi, che quando li hai fai fatica a riconoscerli. Cioè, con il ragionamento ci arrivi pure, ma emotivamente non li vivi come tali. Ti spettano, te li sei meritati, sono tuoi. E sei portato a guardare sempre più in alto, a volere sempre più cose, a fare la conta di quello che ti manca, invece di pensare a ciò che hai in più rispetto ad una grandissima fetta di popolazione mondiale.

Scrivere queste frasi di estremo buon senso mi rassicura in qualche modo? Mi fa stare un pochino meglio?

Manco per il cazzo.

Ma è normale. La tua sofferenza (anzi la mia, non so perché scrivo sempre con la seconda persona singolare) sarà sempre più grande e importante di quasi qualsiasi altra cosa. Io provo un profondo sentimento di invidia mista a diffidenza per tutte quelle persone capaci di spendersi completamente per cause nobili, aiutare il prossimo, empatizzare con persone che vivono situazioni così terribili e diverse dal mio quotidiano che proprio non ce la faccio ad immaginarle nella mia mente. Figurarsi empatizzare.

Sto male? Sì.
Posso farci qualcosa? Forse.
So cosa posso fare? Non ne ho la minima idea.

Ecco, il punto è questo, non ho idea della direzione da dare alla mia vita. Non ne ho mai avuta, in effetti. Diciamo che mi sono lasciato trasportare dalla corrente cercando di dare qualche pagaiata a destra e a sinistra ogni tanto, ma no ho mai davvero impostato una rotta per raggiungere una meta. Non so come si fa, e anche se lo sapessi mi paralizzerei per la paura di fare la scelta sbagliata.

E’ così che sono fatto, lo sono sempre stato. Non posso pretendere di far fare una drastica inversione a U al mio io più intimo, non è realistico, non alla soglia dei 50 anni di abitudine.

Però se magari imparassi a sterzare un po’ di più o, per riprendere la metafora di prima altrimenti mi incasino con troppe immagini diverse, a remare con un po’ più di convinzione, magari provare a raggiungere un puntino in lontananza, anche se non sono perfettamente certo di cosa ci sia davvero laggiù.

Forse questo posso farlo, anzi, sicuramente lo posso fare. Non è semplice. Io non sono semplice. Vale la pena tentare. Se non lo pensassi, se non ci sperassi, non mi sarebbe mai venuto in mente di farmi aiutare un po’ da chi ne sa più di me.

Il punto ora è capire come, dove, quando, cosa. Quelle piccole banalità che possono influire nel prendere una decisione.

Se solo sapessi però di quale decisione sto parlando!
Facile scrivere “non affannatevi”, eh?

22 Marzo 2022
by hardla
0 comments

22 marzo

Un anno fa mi sveglio con la mano sinistra che trema. Sono più scocciato che preoccupato. Ho sonno, è ancora presto per la sveglia, voglio dormire ancora un po’ prima di andare a lavorare. Metto la mano sotto il cuscino, la tengo ferma con la mia testa e per un po’ mi arrangio così. Poi suona la sveglia, mi alzo, vado a fare la doccia. Mi spoglio a fatica perché non solo la mano non ha smesso, ora mi trema tutto il braccio. Sono sotto la doccia, nonostante tutto sono ancora con la mente proiettata verso la giornata di lavoro. Non concepisco le anomalie, non esistono nel mio mondo quotidiano.

Come quella volta, qualche settimana prima, in cui per qualche secondo non sono riuscito ad articolare bene le parole. La parte sinistra del volto come intorpidita. Pochi secondi e poi di nuovo tutto normale, non me ne preoccupo più fino a sera, quando racconto il bizzarro episodio alla mia fidanzata. Lei si allarma, mi dice che potrei aver avuto un ictus. “Che assurdità“, dico. Dai, si può mica avere un ictus alla mia età? E’ sicuramente un effetto collaterale della cervicale che mi sta dando un po’ di problemi da qualche mese.

Tipo che da un po’ faccio fatica a prendere il resto al supermercato con la mano sinistra, o a scrivere al computer e a mano. Per la cronaca sono mancino. O tipo quella volta in cui mi si è addormentata di colpo la gamba, sempre sinistra, e mi sono appoggiato a un muro per un minuto, quando poi ha ripreso a funzionare normalmente.

Certo, a leggere tutti questi indizi, scritti di seguito in poche righe, e non come episodi sporadici spalmati nell’arco di 4 e più mesi, bisogna proprio essere stronzi per non notare una certa connessione tra le cose.

Non che me ne sia rimasto immobile, sia chiaro. Per cercare di risolvere ciò che credevo fossero problemi di cervicale (l’unica cosa di cui ero certo di aver sofferto), avevo fatto un ciclo di massaggi, uno di fisioterapia, una visita neurologica e proprio 2 giorni prima dell’episodio della mano tremante avevo fatto una risonanza magnetica che sicuramente avrebbe evidenziato il problema che ignoravo di avere. Anzi, l’ha fatto, ma quando sono arrivati i risultati ero già ricoverato in ospedale.

Quel 22 marzo dell’anno scorso, uscito dalla doccia mi sono deciso mio malgrado ad andare al pronto soccorso. Non avevo particolare paura di ciò che stava accadendo. Anche in quel momento non pensavo fosse qualcosa di serio e tiravo sempre in ballo la fottuta cervicale. Ero più seccato di dover passare ore infinite in un pronto soccorso nel pieno di una pandemia.

Il primo indizio che qualcosa di anomalo stava accadendo è stato quando mi hanno portato un vassoio con il pranzo da mangiare. Avevo effettivamente fame, ero lì da prima mattina ed era ormai primo pomeriggio, ma nella mia testa mi sembrava assurdo dare da mangiare a uno che era lì per un semplice controllo. Tanto più che mi avevano già fatto degli esami e somministrato un farmaco antiepilettico (mi sembra di ricordare), il braccio aveva smesso di tremare e, insomma, tutto sommato stavo piuttosto bene.

Quella che a me sembrava dovesse essere la fine di una giornata inconsueta, stava per diventare l’inizio del periodo più intenso della mia vita.

Dopo pranzo altri esami strumentali, non li ricordo tutti, ne ho fatti molti da quel giorno in poi. Ci saranno stati degli ecodoppler, delle TAC, non so. Tutta roba che nelle settimane successive ho ripetuto più volte, ma che a un anno di distanza si mescolano in una nube confusa.

Passavano le ore e io iniziavo ad essere un po’ scoglionato. Ogni tanto uscivo a fumare, avevo il telefono e forse mi sono fatto portare anche il caricabatterie, per non rimanere scollegato dal mondo esterno.

A un certo punto del pomeriggio mi hanno assegnato una barella, in fondo ad un corridoio di un reparto pronto soccorso estremamente affollato, e lì ho capito che avrei dovuto passarci la notte, anche se in cuor mio speravo fosse solo un gesto dettato da eccesso di cortesia nei miei confronti.

Non lo era, naturalmente. E’ stata una notte strana, dovrei dire spaventosa, ma non per ciò che mi stava accadendo. A quel punto non sapevo ancora quanto sarebbe stata lunga e interessante la mia avventura in quell’ospedale. Ero più spaventato dalla prospettiva di beccarmi il virus, costretto a stare in un corridoio pieno di estranei estremamente vicini, cercare di riposare con due mascherine indosso, in una fase della pandemia in cui il virus stava recuperando nuovamente impeto e i vaccini non erano ancora disponibili a tutta la popolazione.

Il giorno dopo mi hanno ricoverato a tutti gli effetti e operato nel giro di pochissimo, e tutta quella fretta mi ha finalmente sbloccato un po’ di paura nel cervello.

Tre settimane e spiccioli dopo sono uscito dall’ospedale per tornare a casa. Con molte più risposte di quelle che avrei mai potuto immaginare quel primo giorno. Molte esperienze intense mischiate a moltissime ore di noia. Con infiniti amore e gratitudine per la mia fidanzata, che ha fatto di tutto per starmi vicino, nonostante le regole covid impedissero qualsiasi tipo di visita esterna. Con una buona dose di fiducia per le mie prospettive future.

E con 8 chili in meno che mi hanno agevolato il superamento della prova costume per l’estate 2021.

24 Novembre 2021
by hardla
2 Comments

Una vita fa

Una vita fa scrivevo il mio precedente post su questo blog, era fine aprile 2020, eravamo tutti in lockdown, io ero solo a casa mia, a Genova, e allora non lo sapevo ma 4 giorni prima avevo avuto un infarto, che io e la guardia medica, chiamata a casa per un dolore intensissimo e improvviso per tutto il corpo, abbiamo scambiato per un fortissimo attacco di cervicale.

Che fosse un infarto l’ho scoperto, o meglio ipotizzato con un certo grado di sicurezza, circa un anno dopo, quando sono finito in ospedale per i sintomi in corso di un attacco ischemico che poi hanno richiesto innumerevoli analisi ed esami per capirne le cause e che hanno evidenziato anche questa anomalia di cui non mi ero accorto al momento.

Lo dico subito, nel caso qualcuno legga ancora queste righe e non sappia nulla di ciò che sto scrivendo: mi sento bene, la causa di queste robe è stata individuata, come anche una terapia, e pure gli strascichi dei sintomi a medio termine stanno col tempo sparendo.

La cosa strana, in questo preciso momento, è rendermi conto che anche mentre scrivevo lo scorso post mi sentivo bene, il dolore era passato nel giro di qualche ora e non ho avuto più altre cose paragonabili. Almeno per qualche altro mese, ma comunque non in quel modo.

Mentre tutti ce la facevamo sotto per il Covid non mi sarebbe mai venuto in mente di dovermi preoccupare per una cosa totalmente diversa. Meno che mai alla mia età, e per qualcosa che nessuno in famiglia ha mai avuto. In quei momenti temevo solo che la guardia medica che ho chiamato (era un weekend, e avevo un po’ paura di andare in ospedale, da solo, con la pandemia ai massimi e con quel tipo di dolore), mi trasmettesse il virus, visto che prima di me aveva visitato diversi positivi.

Una vita dopo tutto è cambiato. Non vivo più da solo. Non sto più a Genova, dove non ho più nemmeno la casa, e non faccio più il pendolare ogni weekend. Ho trovato un nuovo lavoro. Ho scoperto molte più cose sulla salute di quelle che avrei che avrei voluto conoscere. Sono diventato un cosiddetto soggetto fragile, almeno per la burocrazia, cosa che mi ha regalato una corsia preferenziale per i vaccini, pensa il culo. Ho modificato un po’ il mio stile di vita, ma non in maniera drammatica. Nonostante tutto ho un po’ di ansie in meno, che non è un risultato trascurabile. Il Genoa continua a fare schifo, come al solito, ma Preziosi non c’è più, ha venduto a degli americani solidi e competenti, non una novità di poco conto.

Non faccio più fotografie da un anno, e la cosa mi rattrista. Ho perso l’abitudine fisica di uscire con uno zaino pesante e passare ore a camminare in cerca di angoli interessanti. Mi dico che è solo un blocco mentale momentaneo, e che prima o poi riprenderò. Ma intanto ogni sera torno a casa stanco, e nel weekend sono pure stanco, e le settimane passano senza che io faccia niente per sbloccarmi.

Sembra stupido per uno di quasi 48 anni, ma forse per la prima volta nella mia vita ho davvero razionalmente ed emotivamente compreso che le cose cambiano, che tu lo voglia o meno, e che devi imparare ad adeguarti al meglio delle tue possibilità. Insomma, se pure il Genoa, per una volta nella sua storia recente, inizia a fare programmi ambiziosi, devo assolutamente prendere coscienza della transitorietà dell’esistenza e dei fenomeni ad essa connessi e comportarmi di conseguenza.

21 Aprile 2020
by hardla
2 Comments

Mi sento solo

Uno dei vantaggi di non avere più lettori è che finalmente su questo blog posso scrivere quel che cazzo mi passa per la testa senza paura di offendere nessuno. Ci ho pensato parecchio prima di iniziare questo post, parte da sensazioni molto negative e, generalmente, non amo mettermi totalmente a nudo. Ma se la piazza è vuota, come del resto dovrebbe essere in questo periodo di clausura, allora chissenefrega, spogliamoci e facciamoci questa passeggiata.

Mi sento solo, lo dice il titolo. E certo, oggi siamo tutti più o meno soli, come da decreto, ma non è il tipo di solitudine a cui mi sto riferendo.

Ovvio, sono a casa da solo, lontano da fidanzata, affetti, amici e famiglia, da molto tempo. E prima che iniziasse tutto questo incredibile casino mondiale ero rimasto solo per altri motivi per oltre un mese. A casa, in mutua. In attesa che si chiudesse un importante capitolo della mia vita. Ma di questo forse parlerò più avanti.

Non sento la lontananza degli affetti, almeno non in modo devastante: le telefonate, le videochiamate, i messaggi e surrogati vari più o meno funzionano. E io ho sempre avuto una spiccata propensione alla solitudine che in questo periodo mi aiuta non poco.

Quello che sento è un isolamento più intimo e feroce da un mondo a cui mi sembra di non appartenere. In periodo di clausura la comunicazione è soprattutto social, e sulle varie piattaforme a nostra disposizione leggo di tutto, soprattutto cose che non mi piacciono. Ed è difficile non farlo, quando il mio unico contatto col mondo esterno passa necessariamente per i dispositivi elettronici che possiedo.

Leggo soprattutto rancore, indiscriminato e assoluto. E diffuso, molto diffuso, troppo. Tutti coloro che hanno una piattaforma digitale a disposizione sembrano non esitare ad usarla per diffondere le loro verità su qualsiasi cosa. In questo periodo, com’è lecito aspettarsi, va di moda il virus, ma un’opinione su qualsiasi altra cazzata possa venire in mente non si nega a nessuno.

Tutto senza dialogo, solo scontro. Non c’è consapevolezza. E’ tutto polarizzato in infinite, noiose, violente guerre di religione. Su qualsiasi argomento, anche il più futile (che, anzi, spesso è quello di più facile comprensione). Non c’è coscienza dei propri limiti, ognuno sembra avere la falsa convinzione che la propria opinione valga quanto (magari fosse così, meglio dire più di) quella degli altri.

Di altri che magari hanno studiato anni per sviluppare una competenza su singoli argomenti molto specifici e difficilmente assimilabili dalle masse con la sola lettura di un paio di articoli divulgativi presi a casaccio in rete. E qui forse sono stato troppo buono, spesso l’articolo è solo uno e ci si limita a leggerne il titolo e basta.

Problemi complessi raramente hanno soluzioni davvero semplici, e fanculo al rasoio di Occam e a come spesso viene citato a casaccio. La verità non è quella che il nostro cervello limitato e incompetente riesce a comprendere. Non siamo al supermercato, dove scegliamo ciò che vogliamo in base alle nostre esigenze. La verità se ne fotte se riusciamo o meno a capirla con parole facili o se è conveniente per le nostre misere vite, esiste a prescindere.

Certo, abbiamo diritto ad avere opinioni, ma dovremmo essere consci che le opinioni possono essere confutate da chi ne sa più di noi. E comunque non siamo obbligati ad averne una su ogni argomento.

Chissà quando è nata questa ostilità verso la competenza. Non sono sicuro che sia colpa dei social network. Certo, sono stati una cassa di risonanza fenomenale e sicuramente abbiamo preso troppo alla lettera la domanda “A cosa stai pensando?” che continuano a porci. Ma la supponenza, l’idiozia e l’arroganza sono sempre esistite. Solo che un tempo era facile isolarle.

L’idiota che sparava cazzate lo faceva magari al bar, a un pubblico limitato e distratto. Uscivi dal bar e tutto finiva lì. Oggi gli idioti li abbiamo sempre in tasca, tutto il giorno. E la rete rende difficile l’oblio di opinioni che raramente vengono cancellate dai server, e che possono tornare in qualsiasi momento ad avvelenare le nostre vite. Come certe bufale o teorie del complotto, magari già sbugiardate da anni, ma che ogni tanto si ripresentano a fare nuovi danni in persone che non le avevano beccate le volte precedenti.

Ecco, il bisogno di bufale, di complotti, di verità non ufficiali, da dove nasce? Perché è così facile caderci? E perché è normale che esse vengano usate per controllare le masse? Non lo so, ma mi sono fatto un’idea. La scrivo qui per non dimenticarmela.

Non sono l’unico ad essere solo. Siamo in tanti. Ma non credo sia facile ammetterlo. E tanti non riescono ad essere contenti di quello che hanno. E a nulla serve mostrare immagini di chi possiede ancora meno, quelle immagini le dimentichiamo in breve tempo perché ci spaventano. Quelle che rimangono sono le foto e i video di chi ha di più, di chi possiede ciò che noi desideriamo o pensiamo di meritare. E in questo periodo storico è facile incontrarle, siamo tutti in vetrina e tutti desideriamo mostrare agli altri la miglior versione possibile di noi stessi, a costo di mentire a loro e a noi. E quando non riusciamo a soddisfare i nostri desideri o aspettative allora è facile che parta il corto circuito della colpa.

La colpa deve essere necessariamente di qualcun altro, qualche maligna entità che complotta contro di noi per impedirci di raggiungere ciò che ci spetta. E’ una rabbia intensa, pervasiva, ma in fondo rassicurante. Perché ci distrae dal fatto che la colpa in realtà potrebbe essere solo nostra. Colpa delle occasioni che abbiamo sprecato o che non siamo stati abbastanza bravi da procacciarci. Colpa dell’impegno che non abbiamo voluto mettere nelle cose che potevano portarci benefici, perché magari era più consolatorio sedersi sul divano e guardare la partita o l’ultimo film di supereroi. O anche, più semplicemente, colpa di alcuni nostri limiti oggettivi.

Perché è dura vivere in una società che ci condanna se non raggiungiamo sempre qualcosa in più. Anche “accontentarsi” è un vocabolo che ha finito per assumere un senso negativo. Ma cambiamolo un po’, diciamo “essere contenti“, e già il significato muta. Non di troppo, però, perché oggi solo i cretini sono contenti.

E si ritorna alla colpa. Meglio individuare colpe esterne che ammettere le proprie. Perché ciò farebbe di noi dei “falliti“, parola odiosa che non comprende solo i beni materiali che non possediamo ma anche e soprattutto la nostra incapacità di ottenerli. La patente di fallito ci colpisce più nell’Essere che nell’Avere. Perché l’Avere può rappresentare uno status transitorio (non ho ancora) ma se non sei allora son cazzi, perché probabilmente non sarai mai.

C’è una soluzione? Non lo so, con queste regole del gioco diventa difficile ipotizzare. Se l’obiettivo è la vittoria allora siamo oggettivamente fottuti, non possiamo vincere tutti. Che ci piaccia o no viviamo in un pianeta con risorse limitate, probabilmente neanche sufficienti per vivere tutti delle vite tranquille e senza troppe preoccupazioni materiali. Figurarsi poi essere tutti ricchi e “vincenti“. La mia scelta, che poi non è una scelta perché è profondamente connaturata nella mia indole, è stata di accettare solo qualche regola del gioco, nel rispetto della società in cui vivo ma anche della mia persona, e spostarne gli obiettivi verso direzioni a me più congeniali.

Sono contento? Boh, sì, a volte. Talvolta no. Ma cerco di non essere tanto ottuso da attribuire ciecamente al resto del mondo la responsabilità delle mie insoddisfazioni. Quello che però mi pesa del mondo che mi circonda è la profonda violenza verbale e la frustrazione altrui che in questi tempi mi è difficle evitare e che condiziona i miei umori.

La soluzione? Evidentemente limitare la mia presenza in rete, visto che la cosa mi fa stare male. Ad isolarmi non mi sento pronto, la ritengo una misura estrema e in parte deleteria, perché mi priverebbe di importanti fonti di ispirazione e nutrimento per quelle che sono le mie passioni personali.

Ma se la mia percezione dovesse ulteriormente peggiorare potrebbe essere l’unica strada a mia disposizione per cercare di mantenere un sufficiente grado di sanità mentale. Un delizioso controsenso, isolarmi di più per sentirmi meno solo.

6 Novembre 2019
by hardla
0 comments

Il sapore de Lammerda

In questi giorni mesi anni mi interrogo sempre più spesso su cosa significhi essere adulti, o anche invecchiare.

Una cosa che ho capito che essere adulto mi ha portato una maggiore consapevolezza di chi sono e di cosa mi fa stare bene o male. Se mi avesse portato anche una maggiore consapevolezza su come gestire le cose che mi fanno stare male sarei stato più contento, ma ehi, non è che si può avere tutto. Pensa ai poveri bambini in Africa che non se la possono permettere la consapevolezza, non lamentarti e finisci quella cazzo di minestra.

Una cosa che ho ricevuto in dono quando sono diventato adulto è una pervasiva ansia costante. Anzi no, a pensarci bene l’ansia costante l’ho sempre avuta. Solo che ora la riconosco, ci diamo del tu e ci scambiamo pure gli auguri di Natale. Prima no, l’avevo, mi bloccava, mi condizionava in tutti gli aspetti della mia vita, soprattutto quelli sociali, ma ignoravo d’averla. Come quando in autunno ti rimetti il cappotto che hai lasciato sull’attaccapanni la primavera precedente, e nella tasca ecco che… no, non ci ritrovi 5 euro dimenticati, magari, ci trovi una gigantesca cambiale sottoscritta al momento della tua nascita e che hai sempre avuto in tasca per tutta la vita.

Che poi, esistono ancora le cambiali? E soprattutto, che cazzo sono (o erano)? Comunque ci siamo capiti.

Ma adesso la mia ansia è peggiorata, o comunque è sempre accesa, senza pause. Sì perché in questi giorni la mia vita è condizionata dal mio capo, che per convenienza narrativa chiamerò Lammerda. Egli è un tipo fondamentalmente crudele, quella crudeltà senza sfumature che trovi nella brutta letteratura, o in quella bellissima. Il classico cattivo. Ma che sia cattivo non lo dico io, che magari non vi fidate della mia opinione. Tutti quelli che hanno lavorato con lui l’hanno odiato, hanno avuto crisi d’ansia e ci hanno perso il sonno.

E chi sono io per privarmi di esperienze tanto intense e formative?

Non starò qui a dilungarmi sulle vicende che hanno portato Lammerda nella mia vita, sono troppo complesse e meriterebbero un romanzo a parte che non ho voglia di scrivere ora. La cosa importante è che odio dover interagire con lui.

Per fortuna le nostre intrazioni sono molto ridotte, lavoriamo in città diverse e non ci vediamo mai. E, per fortuna, la scarsa stima che ho nei suoi confronti è sicuramente ricambiata, quindi preferisce avere a che fare con me il minimo indispensabile, probabilmente ritenendomi un inetto, cosa che mi sono ben guardato dal voler confutare, sia chiaro.

Purtroppo, nonostante queste premesse, talvolta capita che io debba proprio averci a che fare, perché ci sono cose che faccio solo io e che non può delegare al collega più “bravo”. E in quei momenti inizia il mio supplizio. Ogni volta che ricevo una sua mail o una telefonata inizio a tremare. Anzi, peggio, ogni volta che so che dovrò interagire con lui, perché magari sono io che devo comunicargli qualcosa.

E qui la cosa si fa interessante. Perché lui vuole che le cose vengano fatte in un certo modo, seguendo un suo personalissimo criterio di procedure e gerarchie che ancora non ho capito dopo più di un anno e mezzo. E nasce un problema, perché se sbaglio si incazza. Quindi una persona normale che farebbe? Gli chiederebbe come portare avanti il compito richiesto nella modalità che lui ritiene più opportuna. Ma quando gli chiedi le cose si incazza uguale, se non di più, con fare sprezzante. Quindi io entro, come i computer, in modalità sospensione: faccio finta che lui, la cosa da fare, il mondo intero e tutto l’universo semplicemente non esistano. Talvolta mi va bene, molte volte, ovviamente no. E lui si incazza. Strano, perché mi pareva un piano a prova di bomba.

Sono arrivato, paradossalmente, a festeggiare la mia prossima perdita del lavoro, per non dover più avere a che fare con lui. Sì perché nell’ultimo anno la mia ditta ha vissuto una fase di prolungata stasi, nel passaggio da una proprietà, che è fallita, alla nuova, che ci acquista fondamentalmente per smantellare tutto e riaprire in una nuova città e fanculo a chi non si vuole trasferire.

Quindi il mio lavoro ha “fortunatamente” subito, da mesi, una frenata brusca. Ma ogni volta che devo interagire con lui mi si ripropone un conato, sempre lo stesso, che mi ricorda cosa ho mangiato nelle due settimane precedenti. E io non mangio particolamente bene, va detto. Anche sapere che fra un paio di mesi tutto questo sarà solo un ricordo non mi aiuta del tutto a vivere meno intensamente un presente troppo presente.

In questo periodo devo fare delle attività che sono percepite importanti dalla nuova proprietà e, di conseguenza, anche da lui. Perché come in una qualsiasi sceneggiatura fantozziana, Lammerda abbassa il capo con chi è più potente di lui. Probabilmente per leccare meglio il culo, visto che poi non è neppure tanto alto e non ha bisogno di piegare le ginocchia per arrivare in loco.

Vivo le giornate lavorative in costante attesa del peggio, col fiato mozzato. Lunghissime giornate, interminabili, che sarebbero piacevolmente noiose se non avessi il timore di dover avere a che fare con lui. La sera, invece, passa via troppo velocemente, per quanto mi sforzi di farla durare il più possibile. Perché più tardi vado a dormire, più tardi inizia una nuova giornata di apnea fisica ed emotiva. Giocoforza dormo abbastanza poco.

Come risultato mi ritrovo ad essere costantemente stanco anche se non mi sono ammazzato di lavoro. Non ho voglia di fare nulla, nemmeno le cose che normalmente mi danno gioia e in cui ho scelto di riporre il senso della mia esistenza in questo mondo. Annichilimento per autodifesa. Sospensione, come i computer, in attesa che i miei prossimi futuri eventi lavorativi, che da chiunque verrbbero percepiti come decisamente negativi, mi liberino di un fardello che, per una mia innata ingenuità, non pensavo potesse esistere davvero in una vita normale, senza particolari problemi.

Lo sapevo, è venuto fuori uno sfogo aspro e poco divertente. Ma oggi va che non ho molta voglia di ridere.

Vi lascio però con un interrogativo sfizioso:
Pestare Lammerda porta davvero fortuna?

8 Febbraio 2019
by hardla
3 Comments

Mike Bongiorno e la musica elettronica giapponese

Ero in uno dei miei deliri da Youtube, uno di quelli che inizi con “toh, c’è un video che spiega come fare il pollo fritto tipo KFC” e ti ritrovi 4 ore dopo a guardare video di treni in soggettiva.

Ieri sera ho pensato: “ma quanto era figa la sigla di BIS?”. BIS, per quelli che negli anni ’80 erano altrove, era un famoso gioco a premi condotto da Mike Bongiorno su Canale 5.
Sul tubo c’è, tra le altre, la prima puntata completa, divisa in otto comodi (!?!) spezzoni da tre minuti l’uno. Vedere la prima puntata fa tenerezza, era il 1981 e Mike Bongiorno che all’epoca aveva già 57 anni, ci spiegava con orgoglio che BIS andava ad inaugurare una nuova fascia oraria di programmazione. Nessuno, all’epoca, riteneva utile trasmettere programmi nella fascia mattutina o intorno all’ora di pranzo. Si riteneva che un monoscopio fisso fosse preferibile allo spreco di soldi per la produzione di programmi che nessuno avrebbe comunque guardato. Non un’idea del tutto bizzarra, un bel monoscopio aiuterebbe ad aumentare di molto la qualità della tv odierna. Pensate al pomeriggio di Canale 5, monoscopio batte Barbara D’Urso tutta la vita.

Nel primo video Mike individua il suo nuovo pubblico del mattino in massaie, anziani, bambini, gente malata, in ospedale o casa di cura, e lavoratori che magari vanno al bar per la pausa pranzo e trovano la tv accesa. E lo dice con quel suo celebre tono paternalistico che gli veniva sempre così naturale, tanto che alla fine l’inesperto spettatore degli anni ’80 era portato a ringraziare il famoso presentatore per aver rinunciato a qualche ora di sonno mattutino per dare conforto a categorie che erano evidentemente così inferiori e svantaggiate dalla vita e dalla sorte. Praticamente beneficienza. Concetti come percentuali di share e profilazione del mercato pubblicitario sono ancora lontani dalla percezione comune del pubblico, ma evidentemente non sconosciuti ai vertici dell’allora Fininvest.

Tra i vari momenti nostalgia o WTF di quella prima puntata-spiegone cito in ordine sparso: i due concorrenti erano Elenora Brigliadori e il pupazzo Five (!?!); Five lo ricordo con affetto ma la percezione di un bambino alle prese con un linguaggio televisivo nuovo è differente da quella di un 45enne che gli darebbe volentieri fuoco; Marco Columbro (che era la voce ufficiale di Five) era volutamente petulante ma le sue battute non strappavano un sorriso nemmeno per sbaglio, erano decisamente altri tempi; Eleonora Brigliadori si vantava della sua lunga carriera in tv, quasi 2 anni (!) tra Canale 5 e la sua antenata Telemilano 58; i disegni dei premi e dei rebus erano imbarazzanti; i premi invece facevano tenerezza, erano segno di un tempo ormai andato; le 36 caselle del tabellone erano gestite da un complicatissimo sistema di proiettori di DIAPOSITIVE, altro che computer, e infatti le caselle spesso si sovrapponevano tra loro ai margini; Ludovico Peregrini era un mito.

Questa prima puntata è commovente per l’ingenuità generale che si percepisce. Tutto è nuovo nei primi vagiti della tv commerciale, un terreno inesplorato per gli spettatori ma pure per gli addetti ai lavori. In rete si trova pure l’ultima puntata del programma, finito nel 1990 dopo 9 stagioni. Guardandola si capisce che il gioco è rimasto sempre lo stesso, di base, ma è sparita la patina di dilettantismo e improvvisazione. La comunicazione, i ritmi, la gestione del programma e perfino i concorrenti stessi non sono poi così diversi da quelli a cui siamo abituati oggi. Dai primi vagiti all’adolescenza.

Ora però chiudo qualche parentesi e torno al discorso iniziale, che in realtà io volevo parlare della sigla.

Me la ricordavo come fighissima e, risentendola, è fighissima davvero. Un concentrato di musica elettronica retrò, o almeno retrò adesso, per l’epoca doveva essere molto moderna. Con l’orecchio del 2019 mi ha sorpreso quanto fosse buona, considerando il livello medio delle cose dell’epoca, tipicamente composte dall’onnipresente Augusto Martelli.

E un motivo c’è. No, ok, non l’ha composta il buon Martelli.

In effetti è un brano piuttosto popolare in tutto il mondo. Il titolo è Rydeem ed è stato scritto dalla Yellow Magic Orchestra, nome che a me non diceva nulla fino a quando non ho capito che era la formazione di Ryūichi Sakamoto, mica l’ultimo degli stronzi.

Ora, io non sono un esperto di musica, tantomeno quella giapponese, ma Sakamoto è un nome celebre e perfino io lo conosco. E la YMO pare fosse (sia, sono ancora attivi, in effetti) la versione giappa dei Kraftwerk e hanno influenzato un sacco di artisti in tutto il mondo piantando il loro seme pefino nella scena dell’hip hop americano.

Il video ufficiale della canzone è esattamente quello che ti aspetteresti da un gruppo elettronico giapponese degli anni ’80: un concentrato di effetti visivi lo-fi, colori psichedelici, montaggi serrati, gag, facce buffe con espressioni impassibili e invasioni aliene. Imperdibile.

Il suono, così 8-bit, rimanda direttamente all’era dei computer con cui sono cresciuto, ai giochi del Commodore 64 o dei cabinati da bar. E infatti non mi sorprende che Rydeen sia stata utilizzata come colonna sonora di giochi dell’epoca. Una mezza dozzina di giochi, in effetti, l’hanno utilizzata. La cosa che mi sorprende è di non essermene mai accorto, visto che almeno un paio credo di averli giocati.

Sicuramente questo, che avevo sul C64!

Adoro girare alla cazzo su internet.

1 Febbraio 2018
by hardla
4 Comments

Che succede

Succede che scrivere mi costa fatica. Ora faccio foto, e con le foto non devo argomentare, non devo dimostrare nulla, solo mostrare e lasciare a chi guarda trarre le proprie conclusioni. Che poi anche fotografare mi costa fatica, ma meno che scrivere. Tutto da qualche tempo a questa parte mi costa incredibile sanguinosa fatica.

Succede che di recente è morta una mia amica. Potrei scrivere “è mancata” o “ci ha lasciato”, ma no, è proprio morta. E qui non mi va di usare delicate perifrasi.

Succede che avrei voluto esserle più vicino, essere più vicino a suo marito, anche lui mio caro amico. Succede che mi ci sono riavvicinato quando ormai era tanto tardi e non riesco a perdonarmi per questo. Ho paura di non essere stato degno della definizione di amico. Ma questa è una cosa mia, immagino, loro avevano ben altro a cui pensare e non credo lei si sia messa fare una lista dei buoni e dei cattivi. E poi non era per niente il tipo.

E niente, è uno dei dolori più forti che abbia mai sperimentato. Il più forte, probabilmente. Per lei, ovviamente. Per lui, che rimane qui a crescere una bimba. Ma anche per me. Mi si perdoni questo umano egoismo.

Perché sono convinto che sia inevitabile sperimentare una maggiore empatia quando l’identificazione è più facile. Non voglio sentirmi in colpa anche per questo. Ma mi sembra ovvio che un certo grado di immedesimazione sia scontato quando una tua coetanea muore a 44 anni. O forse a qualsiasi età. Solo che ai vecchi succede più spesso e ci sono più abituati. Per me è la prima volta e non ho ancora sviluppato gli anticorpi per gestire questa cosa cosa con nonchalance.

Perché al posto del mio amico, che è rimasto con noi a gestire il suo straziante dolore,  avrei potuto esserci io, se un anno fa le cose avessero preso una piega diversa per la persona che amo. E questo mi sembra che mi autorizzi ad immedesimarmi almeno un po’ senza che nessuno possa dire un cazzo di niente.

E’ stato l’anno più difficile della mia vita, e ciò nonostante non mi sento pienamente autorizzato ad esercitare il mugugno, un diritto di nascita di tutti noi genovesi. Ho fresco davanti agli occhi l’esempio di un vero anno di merda, e non è certo il mio.

Qui è dove partono i buoni propositi. Sinceri e sentiti. Ma questi me li tengo per me. non che siano così sconvolgenti, ve li potete immaginare. Solo che voglio preservare almeno un po’ di elegante silenzio. Una cosa però la voglio scrivere: sono determinato a praticare maggiormente l’empatia, che per anni ho cercato di smorzare per mie necessità.  E voglio imparare a mostrare chiaramente alle persone che mi sono vicine quanto mi sono importanti e necessarie, perché non voglio più correre il rischio che la cosa non venga sufficientemente colta dagli interessati.

13 Aprile 2017
by hardla
0 comments

Tornare avanti

Ho scoperto che quando si invecchia iniziano a piacerti canzoni che non avevi mai considerato. Un po’ come coi cibi, ma in maniera più intensa.

Gli Spandau Ballet non hanno avuto alcun ruolo nella mia vita. Nella cruenta lotta Spandau-Duran sono sempre riuscito a mantenere una posizione neutrale, con una lievissima tendenza verso i Duran Duran, dei quali almeno conoscevo una o due canzoni che proprio non potevi evitare in quegli anni.

True, la canzone più famosa degli Spandau Ballet, la sopporto con indifferenza. Un po’ come si sopportano tante canzoni che senti per radio ma che non ti parlano davvero. Come Purple Rain di Prince, come innumerevoli altre.

Per questo ho inziato a riflettere al motivo che mi ha spinto ad ascoltare a ripetizione proprio Gold e I’ll fly for you e non altre più celebri. E il motivo, com’era facile aspettarsi, non è la musica in sé.

E’ che mi scopro sempre più frequentemente alla ricerca di tutte le madeleine che riesco a trovare, prima che vadano del tutto a male. E quando ci riesco, quando per caso sento una canzone che mi solletica il neurone più di altre, la metto a nastro su youtube per fissarne meglio l’impressione.

Chissà quante volte in quell’estate del 1984 avrò sentito I’ll fly for you suonare nel jukebox del bar in campagna. Chissà quante volte l’avrò sentita anche le estati successive, perché nel jukebox in campagna le canzoni non le cambiavano mica tanto spesso. Sicuramente un numero sufficiente da lasciar sedimentare per 33 anni una latente ma persistente impressione di sé.

Tanto persistente da farsi riconoscere nel 2017. Come Gold, o come Fade to Gray dei Visage, Harden my heart dei Quarterflash. Come tutte le altre che, dopo essersi fatte conoscere, non erano entrate a far parte della mia vita cosciente e che solo negli utlimi anni ho tentato di salvare dal progressivo inevitabile oblio personale.

Lasciamo perdere considerazioni musicali, forse non tutto quello che sono riuscito a salvare meritava di essere ricordato in sé. Non per meriti artistici, almeno. Ma francamente ho passato l’età in cui bisogna ascoltare le cose perché si deve, perché è fico o perché ne vale oggettivamente la pena. Ho sempre ascoltato roba per solleticare la memoria, una delle prime cose che ho fatto con internet, una ventina d’anni fa, è stato scaricare tutte le sigle dei cartoni animati, anche quelli che non ho mai guardato.

Di recente però la memoria ha iniziato a parlarmi a voce più alta e non solo per mezzo della musica. Solo l’altro giorno ho capito perché faccio le foto che faccio e perché uso il rullino per farle, invece che un sensore.

La verità è che sto cercando di fotografare i miei ricordi o meglio l’idea dei miei ricordi. Tutto ciò che mi riporta alle atmosfere che ho vissuto da piccolo, un’insegna, un particolare tipo di tenda o di serranda, un cartello stradale arruginito scritto con un font anni ’70. I fichi d’india della mia vacanza in Calabria coi miei genitori. I fiori che avevamo nel giardino in campagna.

I miei ricordi non sono nitidi come una foto digitale, chiari e taglienti come solo un sensore può darteli. I miei ricordi sono pastosi, confusi ai bordi, talvolta a grana grossa o con vistosi difetti o carenze, come i rullini delle foto che facevamo tutti fino a 15 anni fa. E mi va benissimo catturarli in pellicola, perché così sono sempre stati.

Mi piace pensare che nutrirmi di nostalgici biscotti francesi non sia uno sterile esercizio passivo ma che al contrario serva ad alimentare qualcosa di nuovo. Non so cosa farò della mia collezione di ricordi in pellicola, ma l’idea di poterne fare qualcosa, l’idea di cercare nuove figurine, spinge avanti il mio sguardo invece che ripiegarlo indietro con tristezza. E di questi tempi non è poca cosa.

 

20 Gennaio 2017
by hardla
0 comments

Fantozzi è una cagata pazzesca

cagata_pazzesca

No, non è vero, scherzo. Adoro Fantozzi. Ma colgo lo spunto per riversare i miei soliti due minuti di rabbia da blog contro chi ha l’abitudine di fare solo affermazioni assolute.

“Questo libro è un capolavoro, quel film è una merda, quella serie è terribile, quell’attore è un cane.”

Assolutismi. Sempre.

Io tendo a capire chi, spinto da un momentaneo o duraturo entusiasmo, si lasci andare a lodi smodate parlando di cose che ha apprezzato assai. Mi sta bene. E’ comunque un atto d’amore, un’espressione di sentimenti positivi. Che magari portano a trascendere e a disprezzare chi ha maturato un’opinione diversa. E qui già capisco meno.

Chi proprio non capisco, e segretamente disprezzo, è chi fa della stroncatura assoluta un proprio vezzo: in parte per costruire una facile aura da “espertone di stocazzo” e in parte per affermare la propria superiorità su chi accenna ad abbozzare dei distinguo o ad introdurre sfumature intermedie.

Queste persone a Genova verrebbero chiamate “mugugnoni”, termine efficacissimo che va a risolvere un annoso problema che riguarda la mia città. A Genova il mugugno è sacro ed è diritto di tutti dalla nascita, la mia fidanzata non genovese non lo capisce del tutto, tende a prendere il nostro mugugno alla lettera, fino a pensare che la negatività genovese non conosca limiti. Il limite invece esiste ed è imposto dall’appellativo di cui sopra. Quando uno è definito “mugugnone” ha superato una invisibile linea di decenza anche per i pur tolleranti standard genovesi.

Quando Fantozzi pronuncia la celebre frase “la Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”, non lo fa in modo assoluto, la frase completa è Per me la Corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”. “Per me”. Sembra un dettaglio banale ma è fondamentale, sposta l’indicatore da assoluto a relativo. Non esclude altre possibili opinioni.

Poi vabbé a quel tempo la scena faceva sorridere perché andava a colpire una moda tutta anni ’70 di imboccare a forza modelli culturali ridicolmente elevati a persone che non erano pronte ad assimilarli e che magari non ne avevano neppure voglia. Ma oggi la stessa scena mi fa anche un po’ paura, perché il concetto di “ignoranza al potere” non è più una ridicola e assurda boutade, ma un tragico dato di fatto che permea la nostra vita sociale e politica tutti i giorni.

Se negli anni ’70 eri obbligato a vergognarti della tua scarsa cultura, al punto di essere costretto a simularne una per pararti il culo, oggi viene deriso il “professorone” che rifiuta la semplificazione facilona di concetti che magari facili non sono, in nome di una diffusa convinzione generale che basti il buon senso della gente semplice per risolvere ogni problema. E’ il rischio di quando il relativo diventa assolutismo del relativo. Non tutte le opinioni hanno lo stesso peso, non ha senso professare il contrario.

Lo confesso: io non sono riuiscito a finire “Infinite Jest” di David Forster Wallace, ho fatto una fatica porca e ora è in stand-by da qualche mese sul mio mobile dell’ingresso. Per finire “Cent’anni di solitudine” ho dovuto tirare fuori tutta la mia forza di volontà, me lo sono imposto, ma non posso certo dire d’essermelo fatto piacere.

Ma non vado in giro a dire che quei libri erano merda. Non pretendo di saperne più di chi li ha scritti o di chi ha i mezzi culturali per esprimere un giudizio molto più informato del mio. So che sono due tra i romanzi più importanti della letteratura mondiale, non mi sento di bollarli come “cagate pazzesche” solo perché io non sono stato in grado di coglierne la grandezza. Piuttosto mi sento umiliato, perché non ho visto la bellezza dove molti altri l’hanno trovata. Posso anche arrivare a sentirmi un po’ inferiore, per sensibilità o cultura, a chi ha amato quei due libri.

E credo sia giusto arrivare ad ammettere un certo grado di inferiorità. Se non sono in grado di riconoscere i miei limiti non potrò mai superarli. Socraticamente so di non sapere, ma non ne vado fiero. In questo senso l’espertone di stocazzo e l’ignorante al potere si assomigliano molto: entrambi bastano a loro stessi e non ammettono turbamenti alle loro convinzioni.

E per me entrambi sono dei cazzoni pazzeschi. Per me.

25 Novembre 2016
by hardla
4 Comments

Oltre la verità

file-25-11-16-11-14-58

Interrompo il letargo per riflettere un po’ sul significato di questa notizia: l’Oxford English Dictionary ha scelto “post-truth” come parola dell’anno.

Il concetto di “post-truth” o “postverità”, per come l’ho capito io, è un agglomerato di convinzioni o argomentazioni che non trovano riscontro nei fatti reali ma che comunque vengono diffuse a gran voce per sincera convinzione o per vantaggio personale o politico.

Le bufale, tanto per dirlo più semplicemente. Ma non solo.

Negli ultimi anni sono diventati popolari termini che prima non esistevano, o avevano una valenza molto minore. Bufala, appunto, ma anche fact-checking, la pratica di controllare dati e statistiche presenti in dichiarazioni pubbliche per verificarne l’effettiva correttezza, e tutte le derivazioni possibili di complottismo, complottista, complottaro.

In una particolare declinazione di “postverità”, bufale e complottismi sembrano uniti da un solido legame che fornisce reciproci benefici. I complottisti si nutrono di bufale, anche se nella maggior parte dei casi non sembrano esserne coscienti. E le bufale si diffondono attraverso i complottisti, come un’infezione virale in una popolazione non vaccinata. E non ho scelto questo esempio a caso.

L’aspetto che trovo preoccupante, nel rapporto bufale-complottisti, è che questi ultimi, messi a confronto con evidenze reali che provano la falsità delle bufale di cui si sono nutriti, tendono semplicemente a fare spallucce. Risposta tipo è: “vabbé, questa non è vera ma potrebbe esserlo”. Quando va bene. Quando va male si parte da “e tu ti fidi delle fonti d’informazione tradizionali? non sai che sono tutte al soldo dei poteri forti?” e si può arrivare ovunque, financo alla guerra termonucleare globale.

Il complottista ha bisogno di credere alle bufale, alle multinazionali che decidono di rovinargli la vita, a macchinazioni globali che portano a spruzzare in cielo scie chimiche velenose, o altre teorie similari. Ed è un bisogno molto diffuso e disperato. Ci vorrebbe una bella analisi psicolgica del fenomeno, e magari esiste già. Sarei curioso di capire quali sono i meccanismi interni che spingono il cugino australiano di mio padre (ad esempio) a postare sui social network il bollettino quotidiano delle malefatte di quei cattivoni di Big Pharma. E’ praticamente l’unica cosa che posta, a parte qualche articolo sul rugby. Perché? Perché questo bisogno disperato di attribuire a fantomatiche entità malevole ed esterne la causa delle nostre intime sofferenze? E perché questo bisogno si è diffuso su scala così vasta? Viviamo davvero in una società incapace di accettare gli aspetti negativi della vita senza poterne incolpare qualcun altro?

<<Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità.>> – Joseph Goebbels

Oggi non abbiamo bisogno di essere i ministri della propaganda di un reich qualsiasi per diffondere bugie globali a ripetizione. Ci basta un computer o un telefono e il confortevole calduccio della nostra stanzetta. E se la bugia che scriviamo è abbastanza convincente, se va a toccare corde sensibili della società, non avremo neppure bisogno di ripeterla cento, mille, un milione di volte. Ci penseranno gli altri a farlo al posto nostro, con condivisioni sui social network di articoli farlocchi dai titoli eclatanti e sfrontati. Tanto è stato dimostrato che la maggior parte delle persone condivide notizie solo per il titolo, senza neppure leggerne il contenuto.

In una società che finisce per maturare opinioni fortissime sulla base di informazioni parziali e volutamente fuorvianti, in cui la soglia di attenzione si è plasmata sui ritmi veloci delle bacheche social, non sorprende che si stia diffondendo anche un secondo aspetto legato alla “post-truth”: la postverità politica.

Esponenti dalla personalità molto forte sono in grado di affascinare le masse con gli argomenti che esse vogliono sentire, a prescindere dalla verità dei fatti esposti. La menzogna politica non è certo un fatto nuovo, ma l’impressione è che recentemente si sia passati dall’occasionale bugia di comodo, per quanto grande, o la necessaria omissione malevola, alla sistematica costruzione di piattaforme politiche su fragili fondamenta di bufale e dati falsi. Penso alla recente elezione di Trump, ma anche a certe sparate nostrane da parte delle forze populiste. Penso anche alla mirata demolizione sul piano personale di esponenti avversari, leggasi ad esempio il trattamento che è stato riservato a Laura Boldrini in quanto donna e sostenitrice idee di cooperazione e accoglienza decisamente diverse da quelle della destra xenofoba. Il clima d’odio e di menzogna che si è creato attorno ad una singola persona è al contempo vergognoso e spaventoso ed è ancora più assurdo il pensiero che sia stato fomentato da leader politici la cui priorità dovrebbe essere una responsabile guida delle genti, non ricercarne il consenso solleticandone gli istinti più bassi e pruriginosi.

Il fact-checking è un’attività terapeutica per chi la pratica, perché dà l’impressione di poter ristabilire un minimo di verità condivisa in un mare dilagante di cazzate sempre più sfrontate. Ma nella realtà dei fatti temo si riveli un piacere onanistico più che un utile strumento di persuasione. Prima che intervenga il fact-checking la cazzata ha già circolato nelle menti di migliaia, milioni di persone. La bugia è già diventata verità. La smentita, inevitabilmente tardiva, non potrà ormai avere un effetto dirompente. E’ come sbattere il mostro in prima pagina e pubblicare la smentita in un trafiletto a pagina 21, dopo una settimana: ormai il danno è già stato fatto.

E, per quanto sia tentato di saltellare di bacheca in bacheca a scrivere “BUFALA!” su tutte le cazzate che vedo in giro, per provare un brivido passivo-aggressivo di rivalsa contro la becera demagogia imperante, mi rendo realisticamente conto che non sortirebbe alcun effetto, a parte forse una mia epurazione dai contatti delle persone colpite.

Perché le persone sono affezionate alle loro idee e non amano che inezie come dati verificati o la verità si frappongano in un rapporto d’amore così intenso. E vuoi mica essere tu il tizio che va da loro a raccontare che, in effetti, la loro amata è non è così sincera e immacolata come credono, E che, insomma, è meglio che si facciano qualche controllo, perché un’infezione venerea, a questo punto, sembrerebbe altamente probabile.

-->