Tornare avanti

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Ho scoperto che quando si invecchia iniziano a piacerti canzoni che non avevi mai considerato. Un po’ come coi cibi, ma in maniera più intensa.

Gli Spandau Ballet non hanno avuto alcun ruolo nella mia vita. Nella cruenta lotta Spandau-Duran sono sempre riuscito a mantenere una posizione neutrale, con una lievissima tendenza verso i Duran Duran, dei quali almeno conoscevo una o due canzoni che proprio non potevi evitare in quegli anni.

True, la canzone più famosa degli Spandau Ballet, la sopporto con indifferenza. Un po’ come si sopportano tante canzoni che senti per radio ma che non ti parlano davvero. Come Purple Rain di Prince, come innumerevoli altre.

Per questo ho inziato a riflettere al motivo che mi ha spinto ad ascoltare a ripetizione proprio Gold e I’ll fly for you e non altre più celebri. E il motivo, com’era facile aspettarsi, non è la musica in sé.

E’ che mi scopro sempre più frequentemente alla ricerca di tutte le madeleine che riesco a trovare, prima che vadano del tutto a male. E quando ci riesco, quando per caso sento una canzone che mi solletica il neurone più di altre, la metto a nastro su youtube per fissarne meglio l’impressione.

Chissà quante volte in quell’estate del 1984 avrò sentito I’ll fly for you suonare nel jukebox del bar in campagna. Chissà quante volte l’avrò sentita anche le estati successive, perché nel jukebox in campagna le canzoni non le cambiavano mica tanto spesso. Sicuramente un numero sufficiente da lasciar sedimentare per 33 anni una latente ma persistente impressione di sé.

Tanto persistente da farsi riconoscere nel 2017. Come Gold, o come Fade to Gray dei Visage, Harden my heart dei Quarterflash. Come tutte le altre che, dopo essersi fatte conoscere, non erano entrate a far parte della mia vita cosciente e che solo negli utlimi anni ho tentato di salvare dal progressivo inevitabile oblio personale.

Lasciamo perdere considerazioni musicali, forse non tutto quello che sono riuscito a salvare meritava di essere ricordato in sé. Non per meriti artistici, almeno. Ma francamente ho passato l’età in cui bisogna ascoltare le cose perché si deve, perché è fico o perché ne vale oggettivamente la pena. Ho sempre ascoltato roba per solleticare la memoria, una delle prime cose che ho fatto con internet, una ventina d’anni fa, è stato scaricare tutte le sigle dei cartoni animati, anche quelli che non ho mai guardato.

Di recente però la memoria ha iniziato a parlarmi a voce più alta e non solo per mezzo della musica. Solo l’altro giorno ho capito perché faccio le foto che faccio e perché uso il rullino per farle, invece che un sensore.

La verità è che sto cercando di fotografare i miei ricordi o meglio l’idea dei miei ricordi. Tutto ciò che mi riporta alle atmosfere che ho vissuto da piccolo, un’insegna, un particolare tipo di tenda o di serranda, un cartello stradale arruginito scritto con un font anni ’70. I fichi d’india della mia vacanza in Calabria coi miei genitori. I fiori che avevamo nel giardino in campagna.

I miei ricordi non sono nitidi come una foto digitale, chiari e taglienti come solo un sensore può darteli. I miei ricordi sono pastosi, confusi ai bordi, talvolta a grana grossa o con vistosi difetti o carenze, come i rullini delle foto che facevamo tutti fino a 15 anni fa. E mi va benissimo catturarli in pellicola, perché così sono sempre stati.

Mi piace pensare che nutrirmi di nostalgici biscotti francesi non sia uno sterile esercizio passivo ma che al contrario serva ad alimentare qualcosa di nuovo. Non so cosa farò della mia collezione di ricordi in pellicola, ma l’idea di poterne fare qualcosa, l’idea di cercare nuove figurine, spinge avanti il mio sguardo invece che ripiegarlo indietro con tristezza. E di questi tempi non è poca cosa.

 

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