Perdersi a Tokyo

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Perdersi a Tokyo è un’attività che consiglio caldamente. Non che il risultato sia difficile da ottenere o che ci sia bisogno di qualcuno che vi incoraggi o che vi spieghi come fare. E’ anzi vero il contrario: smarrirsi a Tokyo è facilissimo, vuoi per la morfologia del terreno, vuoi per la presenza di innumerevoli palazzoni tutti uguali, vuoi anche per l’assurdo sistema di indirizzi che usano, per non parlare poi degli ideogrammi, il vero grande nemico silenzioso dell’occidentale in oriente. Ma il punto non è perdersi per sventura. Quello che intendo dire io è perdersi apposta.

Se l’attività sembra troppo avventurosa allora diciamo che va bene anche “quasi perdersi”, ossia buttare un occhio distratto a qualche punto di riferimento, ma senza preoccuparsene troppo, e da lì iniziare a girare a caso, avendo in ogni momento una vaga idea di quale punto cardinale seguire per tornare ad una qualsiasi fermata metro o stazione Yamanote. La differenza la fa quel “vaga idea”, al posto di “idea precisa”, perché ciò di cui sto parlando è, in fondo, uno stratagemma per favorire la serendipità, non per vincere una medaglia delle Giovani Marmotte in orienteering urbano.

L’esplorazione dei luoghi, andare in cerca dell’inaspettato, è un’attività stimolante che, a Tokyo, si può fare senza troppi pensieri. Il rischio di ritrovarsi in zone poco raccomandabili è prossimo allo zero e, per quanto sia facile provare smarrimento totale, ci si sente sempre estremamente sicuri. Anzi, talvolta mi capitava di chiedermi se le persone che incontravo non considerassero me con diffidenza, in fondo ero un gaijin sconosciuto che armeggiava nel buio con cavalletti e macchine strane in zone apparentemente poco fotogeniche, e la risposta era che probabilmente sì ma, essendo giapponesi, non dovevano darlo a vedere, pena il ritiro della cittadinanza.

Perdersi a caso non offre garanzie di successo, che lo facciate per finalità fotografiche, come me, o per mero turismo alternativo, può capitare di vagare per ore in zone decisamente poco interessanti, di un grigiore talmente banale che sentite d’aver buttato del tempo prezioso. Il tempo, in un viaggio di questo tipo, è un fattore importante, a tratti ansiogeno. Perché se anche partite con due settimane da sputtanarvi a piacere, ben presto inizierete a calcolare il tempo rimanente, non quello trascorso, e non potrete fare a meno di pensare che il Giappone non è proprio dietro casa e chissà se e quando ci ricapiterete. Dunque ogni minuto sprecato è un minuto che sentite di togliere ad altre esperienze più meritevoli. Ecco, quest’ultimo pensiero va combattuto con forza, perché è nemico dell’esplorazione casuale e naturale alleato delle guide turistiche.

Non ho nulla contro le guide turistiche, anche se tendo ad usarle con parsimonia. La mentalità turistica non mi è avulsa. Per una mia forma d’ansia ancora da risolvere, quando visito un posto nuovo ho bisogno di riconoscerne i simboli più importanti ed evidenti, prima di tutto il resto. E’ una specie di tributo che pago all’ovvio, una rassicurazione che offro a me stesso. C’è anche da dire che, di solito, i luoghi diventano ovvi perché imprescindibili, perché il loro impatto culturale o emozionale è talmente elevato che diventa difficile rinunciarvi. Fotograficamente, però, i luoghi turistici presentano maggiori difficoltà e minori spunti di interesse.

Per mia fortuna dell’ovvio di Tokyo mi ero già occupato, in massima parte, tre anni fa. E ciò mi lasciava tempo ed energie per occuparmi anche del resto, a cuor leggero. Nonostante ciò, l’orologio ha cominciato a ticchettare piuttosto presto anche perchè ogni angolo che svoltavo, ogni incrocio che raggiungevo, ogni nuova stazione ferroviaria, si apriva un dedalo di possibilità che sarebbero difficili da gestire perfino nell’arco di una vita umana di  media durata. Due settimane si sono dimostrate all’improvviso troppo strette, ho cercato di impormi delle linee guida, tipo rimanere sempre in zone tangenti la linea Yamanote, tentando di non andare in panico per tutte le foto che non avevo ancora fatto, o che non avevo fatto come avrei voluto, o che proprio non avrei avuto più l’occasione di fare. Impresa comunque non facile.

Non tutti vedono il mondo in termini di inquadrature o di opportunità fotografiche. La teoria del perdersi vale per tutti e non è necessariamente finalizzata a portare a casa uno scatto valido. Alcune delle sensazioni più intense provate in questo viaggio le ho vissute perdendomi in anonimi quartieri residenziali, la sera, da solo. Non so se la solitudine è parte integrante dell’esperienza, sicuramente influisce sul mio lavoro fotografico, perché spesso mi sento in difetto ad infliggere ad altri prolungate sessioni di ripresa, lunghe esposizioni notturne, magari al freddo, tutte situazioni che affronterei senza pensieri, se fossi da solo. Preferendo non sentirmi troppo in colpa con coloro che hanno la sventura di volermi bene e di accompagnarsi a me, scelgo di rinunciare a scattare quanto invece mi verrebbe istintivo fare.  Sicuramente mi dispiace non aver condiviso quei momenti, posso solo sperare che le fotografie concepite in tali circostanze siano in grado di trasmettere qualcosa di ciò che ho avvertito, perché a parole mi riesce davvero troppo difficile.

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