Mi sento solo

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Uno dei vantaggi di non avere più lettori è che finalmente su questo blog posso scrivere quel che cazzo mi passa per la testa senza paura di offendere nessuno. Ci ho pensato parecchio prima di iniziare questo post, parte da sensazioni molto negative e, generalmente, non amo mettermi totalmente a nudo. Ma se la piazza è vuota, come del resto dovrebbe essere in questo periodo di clausura, allora chissenefrega, spogliamoci e facciamoci questa passeggiata.

Mi sento solo, lo dice il titolo. E certo, oggi siamo tutti più o meno soli, come da decreto, ma non è il tipo di solitudine a cui mi sto riferendo.

Ovvio, sono a casa da solo, lontano da fidanzata, affetti, amici e famiglia, da molto tempo. E prima che iniziasse tutto questo incredibile casino mondiale ero rimasto solo per altri motivi per oltre un mese. A casa, in mutua. In attesa che si chiudesse un importante capitolo della mia vita. Ma di questo forse parlerò più avanti.

Non sento la lontananza degli affetti, almeno non in modo devastante: le telefonate, le videochiamate, i messaggi e surrogati vari più o meno funzionano. E io ho sempre avuto una spiccata propensione alla solitudine che in questo periodo mi aiuta non poco.

Quello che sento è un isolamento più intimo e feroce da un mondo a cui mi sembra di non appartenere. In periodo di clausura la comunicazione è soprattutto social, e sulle varie piattaforme a nostra disposizione leggo di tutto, soprattutto cose che non mi piacciono. Ed è difficile non farlo, quando il mio unico contatto col mondo esterno passa necessariamente per i dispositivi elettronici che possiedo.

Leggo soprattutto rancore, indiscriminato e assoluto. E diffuso, molto diffuso, troppo. Tutti coloro che hanno una piattaforma digitale a disposizione sembrano non esitare ad usarla per diffondere le loro verità su qualsiasi cosa. In questo periodo, com’è lecito aspettarsi, va di moda il virus, ma un’opinione su qualsiasi altra cazzata possa venire in mente non si nega a nessuno.

Tutto senza dialogo, solo scontro. Non c’è consapevolezza. E’ tutto polarizzato in infinite, noiose, violente guerre di religione. Su qualsiasi argomento, anche il più futile (che, anzi, spesso è quello di più facile comprensione). Non c’è coscienza dei propri limiti, ognuno sembra avere la falsa convinzione che la propria opinione valga quanto (magari fosse così, meglio dire più di) quella degli altri.

Di altri che magari hanno studiato anni per sviluppare una competenza su singoli argomenti molto specifici e difficilmente assimilabili dalle masse con la sola lettura di un paio di articoli divulgativi presi a casaccio in rete. E qui forse sono stato troppo buono, spesso l’articolo è solo uno e ci si limita a leggerne il titolo e basta.

Problemi complessi raramente hanno soluzioni davvero semplici, e fanculo al rasoio di Occam e a come spesso viene citato a casaccio. La verità non è quella che il nostro cervello limitato e incompetente riesce a comprendere. Non siamo al supermercato, dove scegliamo ciò che vogliamo in base alle nostre esigenze. La verità se ne fotte se riusciamo o meno a capirla con parole facili o se è conveniente per le nostre misere vite, esiste a prescindere.

Certo, abbiamo diritto ad avere opinioni, ma dovremmo essere consci che le opinioni possono essere confutate da chi ne sa più di noi. E comunque non siamo obbligati ad averne una su ogni argomento.

Chissà quando è nata questa ostilità verso la competenza. Non sono sicuro che sia colpa dei social network. Certo, sono stati una cassa di risonanza fenomenale e sicuramente abbiamo preso troppo alla lettera la domanda “A cosa stai pensando?” che continuano a porci. Ma la supponenza, l’idiozia e l’arroganza sono sempre esistite. Solo che un tempo era facile isolarle.

L’idiota che sparava cazzate lo faceva magari al bar, a un pubblico limitato e distratto. Uscivi dal bar e tutto finiva lì. Oggi gli idioti li abbiamo sempre in tasca, tutto il giorno. E la rete rende difficile l’oblio di opinioni che raramente vengono cancellate dai server, e che possono tornare in qualsiasi momento ad avvelenare le nostre vite. Come certe bufale o teorie del complotto, magari già sbugiardate da anni, ma che ogni tanto si ripresentano a fare nuovi danni in persone che non le avevano beccate le volte precedenti.

Ecco, il bisogno di bufale, di complotti, di verità non ufficiali, da dove nasce? Perché è così facile caderci? E perché è normale che esse vengano usate per controllare le masse? Non lo so, ma mi sono fatto un’idea. La scrivo qui per non dimenticarmela.

Non sono l’unico ad essere solo. Siamo in tanti. Ma non credo sia facile ammetterlo. E tanti non riescono ad essere contenti di quello che hanno. E a nulla serve mostrare immagini di chi possiede ancora meno, quelle immagini le dimentichiamo in breve tempo perché ci spaventano. Quelle che rimangono sono le foto e i video di chi ha di più, di chi possiede ciò che noi desideriamo o pensiamo di meritare. E in questo periodo storico è facile incontrarle, siamo tutti in vetrina e tutti desideriamo mostrare agli altri la miglior versione possibile di noi stessi, a costo di mentire a loro e a noi. E quando non riusciamo a soddisfare i nostri desideri o aspettative allora è facile che parta il corto circuito della colpa.

La colpa deve essere necessariamente di qualcun altro, qualche maligna entità che complotta contro di noi per impedirci di raggiungere ciò che ci spetta. E’ una rabbia intensa, pervasiva, ma in fondo rassicurante. Perché ci distrae dal fatto che la colpa in realtà potrebbe essere solo nostra. Colpa delle occasioni che abbiamo sprecato o che non siamo stati abbastanza bravi da procacciarci. Colpa dell’impegno che non abbiamo voluto mettere nelle cose che potevano portarci benefici, perché magari era più consolatorio sedersi sul divano e guardare la partita o l’ultimo film di supereroi. O anche, più semplicemente, colpa di alcuni nostri limiti oggettivi.

Perché è dura vivere in una società che ci condanna se non raggiungiamo sempre qualcosa in più. Anche “accontentarsi” è un vocabolo che ha finito per assumere un senso negativo. Ma cambiamolo un po’, diciamo “essere contenti“, e già il significato muta. Non di troppo, però, perché oggi solo i cretini sono contenti.

E si ritorna alla colpa. Meglio individuare colpe esterne che ammettere le proprie. Perché ciò farebbe di noi dei “falliti“, parola odiosa che non comprende solo i beni materiali che non possediamo ma anche e soprattutto la nostra incapacità di ottenerli. La patente di fallito ci colpisce più nell’Essere che nell’Avere. Perché l’Avere può rappresentare uno status transitorio (non ho ancora) ma se non sei allora son cazzi, perché probabilmente non sarai mai.

C’è una soluzione? Non lo so, con queste regole del gioco diventa difficile ipotizzare. Se l’obiettivo è la vittoria allora siamo oggettivamente fottuti, non possiamo vincere tutti. Che ci piaccia o no viviamo in un pianeta con risorse limitate, probabilmente neanche sufficienti per vivere tutti delle vite tranquille e senza troppe preoccupazioni materiali. Figurarsi poi essere tutti ricchi e “vincenti“. La mia scelta, che poi non è una scelta perché è profondamente connaturata nella mia indole, è stata di accettare solo qualche regola del gioco, nel rispetto della società in cui vivo ma anche della mia persona, e spostarne gli obiettivi verso direzioni a me più congeniali.

Sono contento? Boh, sì, a volte. Talvolta no. Ma cerco di non essere tanto ottuso da attribuire ciecamente al resto del mondo la responsabilità delle mie insoddisfazioni. Quello che però mi pesa del mondo che mi circonda è la profonda violenza verbale e la frustrazione altrui che in questi tempi mi è difficle evitare e che condiziona i miei umori.

La soluzione? Evidentemente limitare la mia presenza in rete, visto che la cosa mi fa stare male. Ad isolarmi non mi sento pronto, la ritengo una misura estrema e in parte deleteria, perché mi priverebbe di importanti fonti di ispirazione e nutrimento per quelle che sono le mie passioni personali.

Ma se la mia percezione dovesse ulteriormente peggiorare potrebbe essere l’unica strada a mia disposizione per cercare di mantenere un sufficiente grado di sanità mentale. Un delizioso controsenso, isolarmi di più per sentirmi meno solo.

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