Il giorno in cui sono morto

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Buongiorno a tutti, mi chiamo Hardla.
Ah, e sono morto.

Il giorno in cui sono morto non avevo alcuna intenzione di morire. Non certamente in un modo così atroce, comunque. Essì, perché io, Hardla, sono perito in un incendio, divorato dalle fiamme che si sono diffuse da un punto imprecisato del mio ufficio. E mentre le fiamme ardevano le mie membra, io ero chiuso in bagno.

E stavo cagando.

Era già qualche minuto che sentivo un allarme distante, fastidioso ma lontano. Ma non c’avevo dato peso, sembrava provenire dall’esterno, forse una macchina, che ne so. D’altra parte se fosse stato nell’ufficio l’avrei sentito bello forte, giusto? E fumo non ce n’era mica. Come avrei potuto sospettare?

Invece alla fine di una sontuosa cagata, sono uscito e tornato in stanza, e non c’era nessuno. Nessuno neppure nei corridoi, o nelle altre stanze. Solo il responsabile della qualità era all’ingresso, con un taccuino in mano. Per le scale gente sche scendeva dal piano di sopra. Allora ho capito, ero morto. Bruciato vivo da un incendio invisibile.

A quel punto, cercando di calarmi al meglio nella mia nuova condizione di cadavere, e in verità anche piuttosto indispettito per l’accaduto, sono sceso in strada, superando per scale il presidente della società per cui lavoravo in vita. Il quale, a sua volta, era piuttosto basito e incredulo, faticava a capire che la sua ditta era stata devastata da fiamme virtuali. In strada ho raggiunto il resto dei miei colleghi: molti erano morti, come me. Qualche fortunato s’era invece salvato.

Dalle investigazioni successive all’incidente è emerso che l’allarme nella mia ala dell’ufficio non ha funzionato a dovere, e nessuno dei responsabili della sicurezza s’è premurato di venire ad avvertirci, e tantomeno nei cessi. I responsabili dell’incidente, o almeno quelli sopravvissuti, sono stati individuati e severamente rimbrottati con una perentoria e-mail dal capo del personale in persona.

Io però sono morto. Per colpa d’altri. Bruciato vivo in un cesso. Mentre cagavo.
Chi restituirà al mio nome la dignità perduta?

Eppure me lo dicevano che non dovevo vivere sperando.

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