Gli occhiali di papà

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Che mio padre e  mia madre fossero persone vulnerabili, fragili e decisamente umane l’ho capito abbastanza presto. C’erano indizi difficili da ignorare in casa, certi umori, certi comportamenti che un bambino accetta senza riserve fino a quando non impara a coglierne la peculiarità. Il concetto di normalità, nella testa di un bimbo, parte dai comportamenti a lui abituali salvo poi essere smentito dall’accumulo di esperienze diverse dalle proprie, per assestarsi, infine, su una comoda media statistica dei comportamenti attuati dagli altri: se la maggioranza mette il parmigiano sulla pasta al sugo, allora è normale farlo. Normale, nella norma.

Prendere coscienza della generica vulnerabilità dei propri genitori, in questo senso, è normale. Ciascun bimbo parte dall’idea di onnipotenza e onniscienza di mamma e papà, coloro che hanno tutte le risposte e che sanno fare tutto, per poi rimodulare col tempo il giudizio per gradi successivi, fino ad assestarsi su una sufficiente approssimazione della realtà.
Poi è ovvio che le singole vulnerabilità possono essere più o meno usuali, più o meno diffuse, più o meno pesanti da accettare, più o meno “normali”.

C’è un’immagine mentale che associo alla vulnerabilità di mio padre e, per estensione, ad entrambi i miei genitori.

Fino alle scuole elementari non ho mai avuto grandi occasioni di dubitare dei superpoteri dei miei genitori: qualche indizio sparso, che non potevo soppesare con la giusta competenza, ma nulla più. Non avevo bisogno di grandi risposte da parte loro, o credevo di non averne bisogno, e comunque quelle che mi davano erano sempre soddisfacenti.

Alle medie è cambiato tutto, sono passato da una scuola decisamente aperta e permissiva di stampo fricchettone anni ’70, ad una rigida istituzione ottocentesca che non avrebbe sfigurato tra le pagine del libro Cuore. L’adolescenza poi ha aggiunto turbamenti esistenziali che non sono stato molto bravo a riconoscere e gestire, sommati ad un carattere oltremodo schivo. Insomma, per quanto di quel periodo abbia oggi ricordi anche molto piacevoli, le partite al campetto con gli amici, i videogiochi scambiati come figurine, i primi giri per la città da solo, so che le cose per me allora non furono sempre così semplici.

A scuola andavo bene, ma i professori avevano iniziato a farmi paura. Nel mio vocabolario entrò la parola “interrogazione”, sconosciuta fino ad allora. Iniziò ad insinuarsi in me un’ansia che non mi ha ancora abbandonato, ogni qual volta devo dimostrare le mie capacità in un campo qualsiasi.

Fu in quel periodo che iniziai a chiedere aiuto ai miei genitori, in particolare a mio padre, dal momento che mia madre abbandonò la scuola molto giovane per andare a lavorare. Confidavo nel suo aiuto, nella sua esperienza. Seppur geometra (quindi con una certa esperienza in campo matematico) papà ha coltivato sempre un forte interesse per le discipline umanistiche. Un ottimo mix da cui attingere, dunque.

Ma qualcosa non funzionò. Ogni volta che chiedevo aiuto a mio padre, gli mostravo un libro, un quaderno, lui lo prendeva, lo avvicinava alla faccia, alzava gli occhiali fin su la fronte per leggerlo ad occhio nudo, lo studiava un po’, e gettava la spugna farfugliando sempre qualcosa che a me sembrava irrilevante o non risolutivo. Abbandonava. Mi lasciava solo coi miei problemi. Mio padre era vulnerabile e, cosa peggiore, permetteva che anche io lo fossi di fronte alla classe e ai professori.

Allora ero convinto che fosse solo un problema di memoria: in fondo erano passati tanti anni dalle sue scuole, era più che normale che non ricordasse certi argomenti. Mi sono progressivamente abituato al fatto che non avrebbe potuto essermi d’aiuto su questioni scolastiche e che avrei dovuto sempre e solo fare affidamento su me stesso. Neppure una brutta lezione, per certi versi. Talvolta chiedevo una cosa a papà e lui me la diceva al volo, la sapeva. Ma quando alzava gli occhiali sulla fronte sapevo immediatamente che erano cazzi.

Oggi quello che mi pesa, ripensando a questi episodi, ma anche ad altri che per brevità non racconterò in questo post, è la velocità con cui passava la mano, la mancanza di voglia e, in ultima istanza, l’indifferenza. Mi pesa che non avesse voglia di fare un piccolo sacrificio per me. Non che non facesse sacrifici, sia chiaro, ha sempre provveduto a me nel migliore dei modi, ma preferiva farlo in modo materiale. Il tempo era suo e lo voleva gestire in autonomia, voleva potersi dedicare ai suoi interessi, che gli davano gioia e conforto, senza disturbi o interruzioni.

Forse il mio rammarico è non avergli dato gioia e conforto quanto le sue passioni. So che non mi devo colpevolizzare per questo e so anche che non devo colpevolizzare troppo lui. Oggi mi ritrovo all’età di mio padre, quello di allora, con problemi simili ai suoi, stati d’animo comparabili ma situazioni al contorno completamente diverse. Lui ha fatto ciò che ha potuto con i mezzi che aveva a disposizione e anche io farò lo stesso.

Quello che mi salva è che non ho un figlio che fra 30 anni mi smerderà pubblicamente su un blog. Se esisteranno ancora.

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