Gi come Giappone – 1

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Dopo un mese e mezzo dal mio ritorno in Patria, non ho ancora scritto un rigo sul Giappone. E non per noncuranza o mancanza di voglia, ma per uno stordimento mentale che non accenna a diradarsi. E visto che probabilmente non passerà, cerco di darmi una mossa e di mettere nero su bianco qualcuna delle mie impressioni, in ordine sparso.

I come Incomunicabilità

I giapponesi non parlano inglese. Strano ma vero. Uno s’aspetta che nel giappone ipertecnologico l’inglese venga masticato meglio del maguro. E invece nisba. Scena muta. Neppure con una domanda a piacere.
Neppure gli addetti alla reception di un hotel 5 stelle.

E forse l’equivoco di fondo è che per noi la tecnologia è in inglese, hi-tech, perché l’abbiamo sempre importata dall’estero. Loro se la producono in casa e non hanno bisogno di imparare altre lingue per leggere un foglietto d’istruzioni di un lettore dvd. Al massimo il cinese, ma questo è un altro discorso.
Questa incomunicabilità mi ha un po’ avvilito. Non tanto per una mia inesistente verve chiacchiericcia (inesistente in me, almeno quanto negli autoctoni), ma più per esigenze pratiche di normale sopravvivenza. E sicuramente per orgoglio personale.

Perché io mi sforzavo di formulare, nel mio miglior inglese, frasi corrette stilisticamente e inappuntabili nei contenuti, cercando al contempo di vincere la mia naturale timidezza, e in tutta risposta ricevevo un garbato sorriso ebete, indicativo di chi proprio sembra non avere capito una beneamata fava.
La mia dolce metà, invece, per far fronte alle sue carenze lingustiche, si difendeva con una prontezza d’animo e una faccia da culo invidiabili, e gesticolava urlando poche mirate parole storpiate a muzzo, come nemmeno un audioleso napoletano epilettico. E incredibilmente veniva capita. Magari dopo 30 minuti, ma alla fine veniva capita. Alla fine. Li prendeva per stanchezza.

Più volte, facendo mia una secolare tradizione nipponica, sono stato seriamente tentato dal seppuku, come espediente più onorevole per uscire da una scabrosa situazione di ordinazioni al ristorante. Per non parlare dell’incidente diplomatico sfiorato nel quartiere dell’elettronica, in cui il concetto di “insalata senza cetriolo” è stato reso dalla suddetta dolce metà, attraverso un disegno decisamente falliforme, vergato su un tovagliolo di carta e mostrato a una interdetta cameriera nipponica. La quale è scappata in lacrime dal locale prima che potessimo aggiungere “aglio” e “cipolla”. CU-CUM-BER – CUUUU-CUUUUUM-BEEEEEER.

I giapponesi, si sa, sono molto riservati. Di questa loro predisposizione hanno fatto un credo nazionale, basando sulle idiosincrasie da timidoni tutto il loro galateo (e a me questo potrebbe pure andare bene). Ferma un giapponese a caso, per strada, chiedigli un’indicazione stradale, e lui ti odierà silenziosamente, perché lo metti in imbarazzo: lui, che non sogna altro che potersi fare i cazzi propri, è costretto a comunicare in una lingua che ignora (o che finge d’ignorare, su questo non sono del tutto sicuro) con un maleducato gaijin.

Certo, avessero davvero voluto evitare incontri imbarazzanti per strada con invadenti stranieri sperduti, beh, avrebbero potuto escogitare qualche contromisura furba: ad esempio dare i nomi alle strade potrebbe avere una sua logica, aiuterebbe se non altro a fare un po’ più di chiarezza sul sistema di indirizzi più aleatorio ed assurdo del mondo. Un sistema che, tanto per dirne una, individua un palazzo non per numero civico progressivo (visto, appunto, che quasi tutte le strade non hanno un nome), ma per ordine cronologico di costruzione.

Io, che abitualmente non mi porto in tasca un contatore Geiger per rilevare gli isotopi di carbonio 14 emessi dai singoli palazzi (lo so, colpa mia, ma andare in giro col borsello fa così anni ’70), con questo sistema di indirizzi mi trovo un po’ in difficoltà. Certo, in alternativa, potrei segare a metà ogni edificio della zona, per contarne i cerchi al suo interno, ma anche questo metodo mi sembra effettivamente poco pratico.

– – – fine prima puntata – – –

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