Eterna giovinezza

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Mi incuriosisce molto il film-documentario “Kurt Cobain: montage of heck”, spero che esca presto al cinema, anche qui in Italia.

Ogni generazione ha uno o più simboli e Kurt Cobain è stato sicuramente uno dei più luminosi e rumorosi della mia.   Una delle caratteristiche che rende tale un mito è, necessariamente, la morte. E in questo Kurt non ebbe nulla da invidiare a simboli anche più celebri di lui. La sua morte la decise da solo, consapevomente, autonomamente, coerentemente, con una fucilata in faccia. Niente mezzi suicidi o autodistruzioni progressive. Un taglio netto e via.

Quello che, all’epoca, ci fece innamorare dei Nirvana, fu l’enorme carica di rabbia non patinata. D’altra parte ne uscivamo dagli anni ’80, dove il rock brillava di lacca per capelli e i suoni erano comunque molto addomesticati. Le chitarre sporche, con quei suoni tipo grattugia sul vetro, erano una piacevole novità. A cui, lo confesso, non mi sono abituato immediatamente. La prima volta che Dedee mi ha fatto ascoltare i Nirvana eravamo nella sua auto (a proposito, dove stavamo andando? mi sembra di ricordare un viaggio fuori porta, Milano?) e ci ho messo un po’ a capire quei suoni apparentemente incoerenti.

Quello che ci fece innamorare di Kurt Cobain fu un perfetto mix di coglionaggine, menefreghismo, abbigliamento alla cazzo di cane e, soprattutto, quella palpabile sofferenza intima che traspirava dai suoi sguardi. Quella stessa sofferenza che noi, teenager o poco più, iniziavamo a provare sulla nostra pelle. Le atmosfere un po’ depresse da uscite con gli amici a bere, fumare sigarette, atteggiarsi a chi della vita ha già capito tutto mentre in realtà non avevamo neppure iniziato a capire cos’era questa famosa “vita”, ecco queste atmosfere si sposavano alla grande con gli occhi da cucciolone ferito e scazzato di Kurt, nascosti da quel ciuffo biondo che ho provato a replicare con risultati non certo lusinghieri.

Forse nemmeno Kurt capiva il nostro disagio più intimo, ma dava l’impressione di poterci riuscire, se solo ne avesse avuto l’occasione. Al contrario noi, ma questo divenne molto più chiaro in seguito, probabilmente non eravamo sufficientemente attrezzati per capire il suo, di disagio. Però ci sembrava di poterlo fare. Ma in fondo che ne sapevo io di droghe e overdose e dipendenze? I whisky nei locali dei vicoli, i cuba libre, le sigarette approvate dallo stato, erano la mia trasgressione, il mio modo per far prendere aria ad una mente che sentivo troppo chiusa in sé stessa. Veicolavo la mia rabbia con le canzoni dei Nirvana, perché la urlavano meglio di quanto avrei mai potuto fare io.

La morte di Kurt Cobain è stata epocale. Il messaggio che passò fu: attenti ragazzini, che il dolore è altra roba, e la finta autodistruzione non risolverà i vostri problemi. Quel giorno del 1994 il mondo divenne un po’ più reale. Imparammo a scremare le sofferenze vere dalle pose tardo-adolescenziali. Imparammo a soppesare con più cura la parola “suicidio”, e a non cagarla a vanvera nei discorsi solo per cercare d’apparire più tenebrosi.

Sono passati più di 20 anni. Le sofferenze di quell’epoca hanno perlopiù lasciato il posto ad altri sentimenti. Qualcuna m’è rimasta, forse me la porterò dietro ancora a lungo, ma ho imparato a darle meno peso. Se oggi Kurt fosse ancora vivo non sarebbe quel simbolo che è diventato sparandosi. Mi immagino liti con moglie e figlia sui siti di gossip, lui che non ha praticamente avuto tempo di vivere internet. Chissà se avrebbe mantenuto la sua perversa dignità, o si sarebbe prostituito o rinnegato come tanti suoi simili.

Alla fine che importa? Tutti barattiamo un po’ di dignità e princìpi per solvibilità e tranquillità, lui non sarebbe stato da meno. I suoi compari mi sembra si siano mantenuti comunque abbastanza degni dell’enorme bagaglio che il nome Nirvana si porta dietro. E questo è un indizio rassicurante.

Meno rassicurante è il fatto che i momenti salienti del mio arco di vita stiano iniziando a diventare materiale da documentario, reperti storici. Il tempo passa, naturalmente, e me ne farò una ragione: una cosa che ho capito quel giorno è che farmi saltare la testa col fucile non è proprio nelle mie corde.

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