Del fotoritocco

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E’ giusto ritoccare le proprie fotografie? E, se sì, in quale misura?

Da quando scatto in digitale queste due domande mi frullano nella testa. E, per quanto l’argomento possa sembrare pretestuoso ai più, non sono ancora riuscito a darmi una risposta definitiva.

Non voglio neppure discutere dell’enorme portata del ritocco nei mezzi di comunicazione, di come stia cambiando la percezione che abbiamo del mondo che ci circonda. Voglio solo parlare delle mie foto: io scatto una foto, ho la jpg sul computer, so che facendo una correzione di contrasto o luminosità posso migliorarla, magari scurendo una certa area, o eliminando una sfocatura. Un piccolo ritaglio. E’ giusto? E quanto posso spingermi?

Ci sono i puristi che dicono: no, la foto è quella che esce dalla macchina, e basta. Lo so, io ero così, e posso capire il punto di vista. E’ il modo di ragionare di chi pensa che il fotografo debba azzeccare tutto al momento dello scatto. Tutto quello che fai dopo, in sede di postproduzione, avresti dovuto prevederlo in anticipo. Tutto quello che avviene dopo è una mistificazione.

Questo modo di ragionare è molto diffuso, e proviene dal mondo analogico. Quando a 16 anni maneggiavo la mia prima Nikon, cercando di destreggiarmi tra ASA e rullini, avevo un solo tentativo per scatto. Dovevo azzeccare tutto alla prima, altrimenti la foto sarebbe stata rovinata. Non avevo automatismi, solo un esposimetro, nessun display per controllare quello che facevo, nessuna scheda di memoria che memorizzasse 4000 tentativi. Un rullino, 36 pose, e ogni scatto sbagliato erano soldi che sprecavo, e che incidevano sullo scarno budget di un ragazzino. Nessun Photoshop per modificare gli scatti a posteriori.

La stampa che usciva dal laboratorio, era quella che mi dovevo tenere. Al limite prendevo un paio di forbici e ritagliavo via (letteralmente) eventuali imperfezioni sui bordi dell’immagine, soggetti superflui o inaspettati che chissà come hanno fatto capolino nell’inquadratura proprio mentre scattavo.

Non sviluppavo il rullino, non stampavo le mie foto. Il mio raggio d’intervento era circoscritto a ripresa e forbici. Fotoritocco era una parola senza significato, per me.

Ma non era così per tutti. Molti pensano che il fotoritocco sia nato con Photoshop. Che le foto fatte su pellicola, prima dell’era digitale, fossero intrinsecamente autentiche e immutabili. Ma si sbagliano. Esistevano innumerevoli tecniche che consentivano ritocchi totali o parziali dell’immagine, ben prima che venissero inventati i computer.

Chi ha, o ha avuto, modo di usare un’ingranditore in camera oscura, sa che la tecnica più comune è quella di “schermare” o “bruciare” la stampa che si sta producendo. Facendo arrivare più o meno luce sulla stampa è possibile scurire o schiarire determinate porzioni dell’immagine. Non a caso Photoshop ha due strumenti “scherma” e “brucia” che fanno esattamente lo stesso sull’immagine digitale, richiamando l’uso della prassi analogica. Per bruciare si puntava una fonte di luce aggiuntiva sulla porzione di stampa desiderata, la zona diventava più scura. Per schermare, si creavano delle ombre sulla stampa, spesso con movimenti simili alle ombre cinesi, per evitare contorni netti dell’ombra.

Questa tecnica è stata elevata a forma d’arte da Ansel Adams, uno dei più grandi maestri della fotografia, famoso soprattutto per i suoi panorami in bianco e nero, fortemente drammatici e contrastati, che otteneva anche con un precisissimo lavoro in camera oscura, quello che noi potremmo chiamare “fotoritocco” o “postproduzione“.

Avrei qualche esitazione a chiamare Ansel Adams (e, con lui, una grandissima fetta di fotografi-artisti) un baro. A pensarci bene, anche la scelta di inserire una pellicola in bianco e nero o a colori è una scelta di fotoritocco preventiva. Una scelta che, in digitale, diventa ironicamente più evidente. Perché le foto digitali escono tutte a colori, e la scelta di renderla in b/n è una scelta di ritocco a posteriori. Tanto varrebbe fare le nostre foto tutte a gradazioni di fucsia, il procedimento su Photoshop è esattamente lo stesso.

Il b/n, agli albori della fotografia, nasce come una limitazione tecnologica di un mezzo imperfetto. Nel momento in cui siamo stati in grado di produrre pellicole a colori, però, non abbiamo abbandonato il bianco e nero, per una precisa scelta stilistica e una tradizione visiva e culturale. Ci piace il bianco e nero perché rappresenta la realtà in modo efficace e non necessariamente aderente a ciò che i nostri occhi vedono. Proprio come un qualsiasi altro ritocco, a pensarci bene.

Non c’è un modo unico di stampare un rullino. Per le stampe di tutti i giorni, quelle che noi portavamo dal negozio sotto casa, venivano usati dei parametri di stampa più o meno standard e il risultato era abbastanza uniforme. Se poi qualche fotogramma risultava sbagliato, perché ripreso in condizioni estremamente differenti, si faceva ristampare chiedendo maggiore attenzione alle condizioni della singola foto. Questo per i comuni mortali. Ma chi aveva le possibilità e le capacità di intervenire sul processo di sviluppo della pellicola e di stampa, poteva ritoccare ogni singolo aspetto della foto, operando scelte stilistiche molto precise.

Non c’è un modo unico di ottenere una jpg. Per le stampe di tutti i giorni la nostra fotocamera digitale adotta arbitrariamente dei parametri standard (contrasto, luminosità, saturazione dei colori) che cercano di indovinare i gusti degli utenti, ma che non sono necessariamente fedeli. Di norma le case produttrici cercano di esaltare la brillantezza dei colori e il contrasto, per rendere le immagini finali più piacevoli all’occhio. Questo per i comuni mortali. In realtà dalle macchine più professionali esce un file RAW (equiparabile a un negativo digitale, nella filosofia) che, al contrario della jpg, consente all’utente di produrre l’immagine finale operando tutte quelle scelte che, di norma, sono lasciate al software interno alla nostra fotocamera.

Paradossalmente, scattando in un formato digirale non amatoriale, scattando in RAW, l’utente è obbligato a ritoccare l’immagine per produrre la foto finale, con un procedimento che ricorda molto  quello applicato in camera oscura.

Fatti tutti questi discorsi, avendo bene in mente che il ritocco è sempre esistito e ritornando alle due domande iniziali, è ancora GIUSTO chiedersi quanto sia GIUSTO effettuare ritocchi? La differenza tra la pellicola e la foto digitale sta nella maggiore facilità di manipolazione. Mio padre sta ipersaturando tutte le sue foto, rovinandole con Picasa in maniera molto fantasiosa perché a lui piacciono così, ma almeno può farlo in modo autonomo, con mezzi tecnici molto modesti. All’epoca della pellicola non sarebbe stato così facile, e ora si vuole godere appieno quest’orgia di nuove possibilità.
Ma, come ho detto, i ritocchi sono sempre esistiti.

Può essere giusto, invece, chiederci cosa ci piace, non cosa è intrinsecamente giusto. La nostra soglia ce la tracciamo da noi. Ci sono artisti che prendendo una foto la elaborano in modo pazzesco e ne fanno un’opera che, alla fine, non è più nemmeno una foto. E’ un collage digitale, un’opera pittorica. Per loro il ritocco estremo è un mezzo efficace di espressione.

Per altri il ritocco deve essere moderato e funzionale alla rappresentazione della realtà, come noi l’abbiamo percepita coi nostri occhi al momento dello scatto. Davanti al computer si lavora per ritrovare sullo schermo la sensazione visiva che ci ha fatto premere il pulsante dell’otturatore, o almeno quello che noi ricordiamo di quella sensazione.

Personalmente, se tengo allo scatto, preferisco non intervenire sul soggetto della foto. Se in mezzo all’inquadratura finisce un elemento indesiderato, cerco di evitare la tentazione di eliminarlo con il timbro clone di Photoshop. Preferisco ritenere l’immagine un tentativo sfortunato e passare oltre. Magari tornare a ripetere lo scatto in un momento successivo, quando possibile.
Ma dipende anche da quanto sento di falsare l’intenzione iniziale. Nelle foto delle vacanze sono molto meno rigido. E quando, invece, scatto coll’iPhone faccio ogni sorta di porcata visiva, in pre e in post-produzione. Più le foto sono un gioco, più mi vien voglia di giocarci e stravolgerle.

E questa, in definitiva, è la mia etica operativa. Al momento.

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