Cugini di secondo grado d’Italia

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Da qualche mese, ormai, sul mio terrazzino fa anomala mostra di sé un tricolore italiano. Che, a dire il vero, dopo mesi di sole, smog e intemperie assortite, ha finito per assomigliare più a quello irlandese.

La cosa notevole è che, nel frattempo, l’Italia non ha vinto i mondiali di calcio. E nemmeno l’Irlanda. Vengono quindi meno tutti i motivi ragionevoli per i quali un italiano moderno si senta autorizzato a dimostrare pubblicamente e con orgoglio il proprio patriottismo. Gli irlandesi ne hanno di più, ma non sempre sono più ragionevoli, almeno nei modi.

Da italiano moderno anomalo, però, ho pensato che i 150 anni di unità d’Italia, meritassero una piccola celebrazione, anche da parte mia, con o senza mondiali di mezzo.
Sarà forse che frequento molto Torino, e lì con la storia della prima capitale d’Italia sono tutti esaltati. Bandiere tricolori ovunque, e di tutte le fogge e fatture. Quelle sintetiche da 1 euro in vendita in edicola, quelle di cotone pesantissimo del dopoguerra, quelle della Marina Militare (a Torino!) e, naturalmente, quelle Sabaude. Perché la monarchia italiana è storicamente una faccenda piemontese, che sopravvive a qualsiasi referendum.

Insomma, Torino in questi mesi è tricolore. Esageratamente tricolore. Spontaneamente tricolore. In tutte le strade, del centro e della periferia, nei negozi, nei musei, nelle piazze. Bandiere italiane ovunque. Uno spettacolo notevole.

Inaspettatamente tricolore, anche. Perché, usando le scorciatoie del luogo comune e della dialettica politica più spicciola e becera, Torino è una città di sinistra, mentre i simboli del patriottismo sono da molto tempo associati ai valori della destra (dopo i partigiani, il rifiuto totale, a sinistra). Ma in un momento storico in cui i valori della destra si sono persi nelle tasche e nelle mutande del suo leader, immagino che in molti si siano sentiti in dovere di supplire a certe mancanze istituzionali, riscoprendo un certo piacere nel sentirsi italiani a prescindere da un pallone rotolante.

Genova no. Genova, come sua abitudine, si fa i cazzi suoi. Perché se è vero che, in una sorta di Alzheimer collettivo, allegro e contagioso, Torino crede ancora d’essere Capitale d’Italia, Genova non si capacita di non essere più una Repubblica Marinara autonoma e sovrana. A Genova tricolori non ce ne sono, perché il patriottismo è una parolaccia (di destra). Perché il patriottismo, anche spicciolo, è altamente impopolare e richiede una certa dose d’idealismo e di buona volontà per essere perseguito. O un pallone, naturalmente.

E non dimentichiamo che spesso l’Italia è unita solo sulla carta. Nella testa degli italiani ci sono pianerottoli, caseggiati, isolati, quartieri, contrade, comuni, province (per poco) e regioni. E poi l’Italia.

Guelfi e ghibellini, Genoa e Sampdoria, marinai e montanari.  Siamo fatti così, da secoli.

Il nostro primo istinto da italiani e da genovesi è prendere stato, governo, politica, società, mafia, pizza e mandolino e ficcare tutto in un contenitore, insieme coi nostri insulti, i nostri problemi e gli inevitabili mugugni. E non arriviamo a capire che, se spendiamo tanto tempo a lamentarci del governo, della classe politica, delle tasse, non è solo per assecondare una nostra propensione naturale ed etnica al mugugno, ma è anche perché ci dispiace vivere sulla nostra pelle la crisi di un paese a cui, in fondo (anche se ci dispiace ammetterlo e fa tanto libro Cuore), vogliamo bene. E non solo perché ci viviamo dentro.

Perché se fosse solo una faccenda di nostro tornaconto personale ci metteremmo sullo stesso piano delle persone che tanto disprezziamo, e quel disprezzo non deriverebbe più da un giudizio etico sulla gestione della res publica, ma si ridurrebbe a una semplice invidia per i privilegi che altri sono riusciti a raggiungere. E noi no.

Per questo motivo mi sono arrischiato ad appendere una bandiera tricolore al balcone. Per quella del Genoa c’è sempre tempo.

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